Passa ai contenuti principali

Il "Romanzo di una strage" e le calze di Laura Chiatti

Quando ho chiesto a E.A. : «Che domanda potremmo fare a Laura Chiatti?», lui mi ha risposto così: «Porti le calze?». Il suo pestifero eloquio è il perfetto contraltare del suon buon cuore. Quanta verità però in quelle parole. In questa battuta potremmo forse sintetizzare la qualità e l'interesse suscitato in noi dalla conferenza stampa cui abbiamo assistito poche ore fa. Al cinema Adriano di Roma questa mattina, è stato presentato il nuovo film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage. Un film che un Paese come il nostro dovrebbe attendere con ansia per mille e mille motivi. Dico subito che il film non l’abbiamo visto. Questione di inviti, orari, comunicazioni errate, spostamenti urbani e extraurbani, etc. Morale della favola. Del film non possiamo dir nulla e soprattutto gli assenti hanno sempre torto. Le voci di corridoio (per noi autorevoli) non erano molto soddisfatte. Qualcuno ha detto che sia mancato il Cinema, lo sguardo d’autore. Però alla conferenza stampa abbiamo assistito con quella vaga ma convinta speranza di sentirne delle belle. A vent’anni dalle stragi del ’92-’93, parlare di una che ha passato i quaranta non ha certo il sapore della nostalgia. O almeno dovrebbe essere così. Nessuno ne esce granché bene però. Il regista Giordana ha detto cose semplici ma intelligenti, ben argomentate ma anche piuttosto scontate. Ha citato Pasolini. Al suo famoso articolo passato alla storia come “Il romanzo delle stragi” si deve il titolo del film. Evocare Pasolini oggi è un po’ come evocare Napolitano. Il tutto ha il sapore del politicamente corretto (non  è certo colpa di Giordana). Questione di contesto. Questione sociologica, politica e culturale. E infatti Napolitano qualcuno lo ha citato come un’entità salvifica del Paese. È stato Pierfrancesco Favino (l’anarchico Pinelli) a nominarlo, mentre raccontava di aver conosciuto la famiglia del ferroviere volato dalla finestra. Ha poi ricordato ai giornalisti un particolare non di poco conto: lui è nato nel 1969 e che quando ha girato il film aveva 41 anni, la stessa età a cui Pinelli è morto e soprattutto che anche lui ha una famiglia e delle figlie (!). Valerio Mastrandrea (il commissario Calabresi), nel suo ostentato orgoglio burinchic, ha raccontato di non aver voluto prendere contatti con la famiglia Calabresi per pudore e quando una giornalista gli ha chiesto cosa pensava dell’intervista di Mario Calabresi (figlio del commissario) apparsa ieri sul Corsera, il buon Valerio ha fatto spallucce. Le ha fatte più volte e non metaforicamente. Non aveva nulla da commentare a proposito. Fabrizio Gifuni (Aldo Moro, Ministro degli Esteri allora) ci ha tenuto a ricordare che solitamente il suo approccio al personaggio e alla vita da set è di stile monacale. Stavolta invece tutto diverso. Andava sul set dopo aver dormito poche ore. Le sere precedenti le passava tutte al Teatro Valle Occupato. Quando si dice l’attore impegnato... Il produttore Riccardo Tozzi ha tentato una polemica sul ruolo del servizio pubblico svolto dalla Rai (polemica subito spenta dall'amministratore delegato Rai Cinema, Del Brocco) e ha ricordato che l’idea di questo film gli era venuta anni prima quando in un’intervista a Lino Jannuzzi aveva scoperto (non è mai troppo tardi) che Calabresi e Pinelli si conoscevano e si regalavano anche dei libri. Quella notizia aveva avuto per lui il valore di una bomba come quella del 12 dicembre. Gli sceneggiatori Rulli e Petraglia hanno parlato pochino, senza lasciare troppo il segno. Giordana ha poi ringraziato il lì presente giornalista Paolo Cucchiarelli, autore de Il segreto di Piazza Fontana, libro a cui il film si ispira liberamente. A uscire male, malissimo, dalla conferenza stampa sono stati i giornalisti presenti, impegnati (quasi tutti) a evocare il loro aneddoto personale legato alla strage. Ognuno aveva qualcosa da dire. Eppure non si è avuta per un attimo, nei momenti di quell’inspiegabile amarcord, la sensazione che quella strage fosse patrimonio comune. Quelle parole sono apparse dei pezzi di ostentato individualismo e di dura incomunicabilità. Ognuno a portare un proprio ricordo, senza mai toccare veramente gli oggetti della discussione: il film e la storia che racconta. Di scelte registiche, di linguaggio cinematografico,  di strategia della tensione, Guerra Fredda, Democrazia Cristiana, servizi segreti, ruolo della stampa e della controinformazione, polizia politica, neo-fascisti, anarchici infiltrati, mostri sbattuti in prima pagina neanche a parlarne. Sarà per questo che Giordana a un certo punto li ha incalzati, dicendo loro: «Delle persone presenti alla morte di Pinelli, è rimasto vivo solo il Tenente Savino Lograno. Vive a Torino. Andate a trovarlo e fatevi dire come sono andate le cose». Lograno una verità sicuramente ce l’ha. Tiriamogliela fuori. Per quel che riguarda Laura Chiatti (Gemma Calabresi) le calze non le portava. Oggi a Roma, splende il sole. Ma la notte della Repubblica ancora non è finita. 

Commenti

Post popolari in questo blog

Napoli, Baires: Maradonologia. Una bella chiacchierata con Pablo Alabarces

«Fútbol y Patria». «Peronistas, Populistas y Plebeyos». «Historia mínima del fútbol en América Latina». Questi sono solo tre titoli di una ricca produzione saggistica fatta di cronache politico-culturali e indagini sociologiche e letterarie. Chi vuole sapere di calcio e cultura popolare sudamericana deve passare per gli scritti di Pablo Alabarces e capirà qualcosa di cantanti mitologici come Palito Ortega, rock, tifoserie, sistema mediatico, violenza da stadio. Sociologo, argentino classe 1961, Alabarces è titolare di cattedra presso la UBA, l’Università di Buenos Aires. Lo incontriamo a Roma, zona Stazione Termini. Pablo è da poco rientrato nella capitale al termine di un bel soggiorno in una Napoli ebbra di festa per lo scudetto e dopo aver visitato Viggianello, borgo della Basilicata ai piedi del Pollino. «È la quinta volta che sono in Italia. Non ero mai stato nel paese dove nel 1882 nacque Antonio Carmelo Oliveto, mio nonno materno», ci racconta mentre ci incamminiamo verso Piazza

Remo Rapino, un undici fantastico e fantasioso

La storia del calcio è fatta anche di formazioni recitate tutte d’un fiato. Dal glorioso e drammatico incipit Bacigalupo-Ballarin-Maroso del Grande Torino al Zoff-Gentile-Cabrini – buono per la Juve di stampo trapattoniano e per l’Italia di Spagna ’82 – passando per il Sarti-Burgnich-Facchetti della Grande Inter del mago Herrera. Se, citando Eduardo Galeano oltre ad essere mendicanti di buon calcio, lo fossimo anche di letteratura ci sarebbe un nuovo undici da imparare a memoria. Un undici fantastico e fantasioso agli ordini dell’allenatore-partigiano Oliviero che fa così: Milo, Glauco, Osso Nilton, Treccani, Giuseppe, Wagner, Berto Dylan, Efrem Giresse, Pablo, Baffino, Nadir. Una squadra-romanzo piena del sapore della vita, che si confessa in prima persona. A immaginarla in Fubbàll (Minimum Fax, pp. 148, 16 euro) è stato Remo Rapino (1951), insegnante di storia e filosofia di stanza nell’abruzzese Lanciano e già premio Campiello 2020 con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio . 

Farsi una foto con Dios. L'intervista al fotografo Carlo Rainone

Sette anni fa Carlo Rainone (Palma Campania, 1989), fotografo-documentarista con un curriculum fatto di studi e collaborazioni internazionali, decide di scavare nel ventre della Napoli degli anni ’80, quelli, non solo, del dopo-terremoto, delle guerre di camorra e del contrabbando. Un immaginario che il cinema di questi anni sta riportando in superficie, dal Sorrentino di È stata la mano di Dio al Mixed by Erri di Sidney Sibilia senza dimenticare il Piano piano di Nicola Prosatore. L’obiettivo dell’indagine è assoluto, laborioso e faticoso ma il confronto costante con il fotografo Michel Campeau è di grande supporto. Bisogna infatti scovare la «foto con Maradona», il re della Napoli calcistica per sette tortuosi anni, il patrono pagano della moderna Partenope. Rainone inizia ad inseguire fotografie già scattate. Icone conservate in album di famiglia o piegate in portafogli, appese sui muri di negozi e laboratori, case, pizzerie e ristoranti. La consapevolezza sta tutta nelle parole