Li vorrebbero invisibili. E quando incrociano i loro sguardi, li
pretendono come quello che loro sono incapaci di essere. Precisi,
puntuali, risparmiatori, frugali, dimessi, austeri, silenziosi, senza
vizi e sbavature, pronti ad accontentarsi anche di un pezzo di pane
andato a male, con la vita scandita da quello che loro rifiutano. Su
quei visi vedono solo l'onta di colpe non commesse, e non sanno che
quelle ingiurie le hanno scarabocchiate loro con l'inchiostro del
rifiuto, della distrazione,
dell'indifferenza, della chiusura. Si negano il gusto dell'epifania, il
piacere della rivelazione, l'orgasmo della scoperta. Non sanno che anche
loro, gli "extranei", sono gravidi di parole, pensieri, sogni,
emozioni, speranze, paure, drammi. Per darli alla luce ci vuole tempo,
attenzione, cura, ascolto, sudore, fatica. Forse, soltanto, il desiderio
di un mondo diverso.
«Fútbol y Patria». «Peronistas, Populistas y Plebeyos». «Historia mínima del fútbol en América Latina». Questi sono solo tre titoli di una ricca produzione saggistica fatta di cronache politico-culturali e indagini sociologiche e letterarie. Chi vuole sapere di calcio e cultura popolare sudamericana deve passare per gli scritti di Pablo Alabarces e capirà qualcosa di cantanti mitologici come Palito Ortega, rock, tifoserie, sistema mediatico, violenza da stadio. Sociologo, argentino classe 1961, Alabarces è titolare di cattedra presso la UBA, l’Università di Buenos Aires. Lo incontriamo a Roma, zona Stazione Termini. Pablo è da poco rientrato nella capitale al termine di un bel soggiorno in una Napoli ebbra di festa per lo scudetto e dopo aver visitato Viggianello, borgo della Basilicata ai piedi del Pollino. «È la quinta volta che sono in Italia. Non ero mai stato nel paese dove nel 1882 nacque Antonio Carmelo Oliveto, mio nonno materno», ci racconta mentre ci incamminiamo verso Piazza
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