Passa ai contenuti principali

Le vittime di mafia e la storia come metodo critico

Una recensione de “Il Sindaco Gentile. Gli appalti, la camorra e un uomo onesto”, di Marcello Ravveduto. Edito da Melampo (2016), il volume è una biografia di Marcello Torre, sindaco democristiano di Pagani, avvocato di camorristi, anarchici ed extra-parlamentari.
Marcello Torre in un'aula di tribunale
Era il dicembre del 1980, nei giorni successivi al terremoto dell’Irpinia del 23 novembre, una data che segna uno spartiacque nella storia della camorra e della storia italiana. In quel dicembre viene assassinato Marcello Torre, sindaco democristiano di Pagani. Un’altra vittima della criminalità organizzata campana, che attorno alla ricostruzione del post-terremoto aveva fiutato grandi affari. Con Il sindaco gentile, un lavoro documentato e appassionato, Marcello Ravveduto ricostruisce senza indulgenze questa complessa vicenda umana, politica e professionale.

Marcello Torre è un uomo di legge, come Fulvio Croce, presidente degli avvocati di Torino, ucciso dalle Brigate Rosse (1977), come Giorgio Ambrosoli, “l’eroe borghese” fatto uccidere da Michele Sindona (1979). Con Torre siamo lontani dalle atmosfere metropolitane degli anni di piombo, lontani dagli odori e dalle situazioni promiscue degli oscuri vicoli di Napoli. Siamo ancora in Campania, nell’agro nocerino-sarnese, a Pagani, centro urbano dalla vita economica legata al commercio ortofrutticolo e di bestiame. Un luogo che le cronache giornalistiche di quegli anni ci consegnano come un territorio da “Far West”, un villaggio dominato dalla paura in cui bande di camorra si sfidano a colpi di arma da fuoco.

Il clan dei paganesi, proprio come la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo, è un esempio di camorra modernizzata che si presenta come un’evoluzione della vecchia guapparia. Questi giovani dell’hinterland, nati e cresciuti in città disordinate e degradate dalla speculazione edilizia, con classi dirigenti clientelari e in molti casi corrotte, hanno trovato uno sbocco nella corsa al benessere attraverso la massificazione della violenza, che è un fattore non tanto comprensoriale o regionale quanto nazionale (p. 148-9).

Un episodio su tutti ci restituisce il clima di violenza di allora: la sparatoria fra due gruppi rivali davanti a un cinema della città. Siamo nel 1972 e un anno dopo Fernando Di Leo, raffinato regista noir, reinventerà nel contesto siciliano quel cruento episodio nelle prime scene de Il Boss (1973). Ma torniamo alla Pagani di qualche anno fa. La camorra è una criminalità che tradizionalmente e quantitativamente non ha mai “alzato il tiro” contro le istituzioni e la società civile a differenza della mafia siciliana e ha tradizionalmente usato la sua violenza come strumento di comando intra moenia. Ma la cittadina di Pagani si è tristemente misurata con l’assassinio di un consigliere comunale (Michele Buongiorno), di un sindacalista della Cgil (Antonio Esposito Ferraioli) e di un assessore (Enzo De Risi). L’omicidio Torre rappresenta quindi un punto di vista privilegiato sui rapporti fra camorra e politica.

Ravveduto descrive un Marcello Torre composito: l’uomo di partito, il cattolico democratico che si schiera per il “No” al referendum sul divorzio nel 1974, il politico che dialoga con il Partito Socialista e con il Partito Comunista, l’appassionato di calcio, l’amministratore pubblico realista e dotato di visione sul futuro, il brillante professionista, l’intellettuale pubblico,il marito e il padre legatissimo alla sua famiglia. La sintesi del personaggio sta tutta nell’aggettivo che connota il titolo del libro: “gentile” (gens in latino è sinonimo di familia). Ovvero di un uomo di “buona stirpe”, di animo delicato e di un sindaco in cui la vicinanza ai cittadini non è formalità populista ma metodo e sostanza di governo.

Spesso le biografie dei morti innocenti di criminalità organizzata e terrorismo sono lette attraverso un paradigma vittimario, specchio di un paese a digiuno di verità storico-giudiziarie accettate e condivise, e inevitabilmente incapace di fare storia ma solo di alimentare memorie parziali e dividenti, ricostruzioni biografiche con testimoni diretti consultati senza tener conto della loro legittima ma pericolosa parzialità. «Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica gli “eroi” del Risorgimento (ma anche quelli della Resistenza) hanno lasciato il posto alle “vittime”; e la loro sofferenza è stata collocata al centro della nostra “memoria ufficiale”» [1]. Ravveduto sa che «la vittima è l’eroe del nostro tempo» che «essere vittime (…) immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio» [2] e sfugge a questi pericoli, riuscendo a fare «più storia e meno memoria», prendendo distanza «dalla tempesta sentimentale che imperversa nelle nostre istituzioni» e recuperando «un rapporto con il passato più problematico, più critico, più consapevole». [3] Ricostruisce i contesti, interroga i documenti, scruta gli archivi privati dell’avvocato, dà dignità a tutte le fonti messe a sua disposizione dalla famiglia. Anche il filmino del matrimonio di Marcello Torre viene sezionato fotogramma per fotogramma. Per chi studia la contemporaneità tutto è passibile di critica e in simili ambiti di ricerca «film e fotografie amatoriali sono insostituibili».[4]
Fotogramma tratto da Il camorrista di Giuseppe Tornatore, 1986
L’Autore è consapevole della fallacia della memoria, dei pericoli che derivano da un azzardato uso pubblico della storia e per questo la usa come metodo critico, analitico, con la consapevolezza che solo quegli strumenti permetteranno di raccontare ai lettori gli incroci più inafferrabili e enigmatici della biografia di Torre: essere stato nella sua carriera un avvocato di camorristi, di anarchici e di formazioni extraparlamentari. Aver vissuto i giorni del terremoto dell’Irpinia al fianco dei suoi cittadini, togliendo lamiere, pietre e detriti, requisendo il mercato ortofrutticolo di Pagani affinché diventasse rifugio per le persone rimaste senza casa, portando conforto ai sofferenti, denunciando i rischi di infiltrazione negli appalti, non scioglie i nodi della sua figura pubblico-professionale. In quei frangenti

    Torre è (…) al centro di una serie di correnti contrastanti: la Democrazia Cristiana che insiste per assegnare gli appalti d’urgenza ai soliti “amici”, le sinistre che si fidano ma non vogliono sporcarsi le mani, la stampa che lo dipinge come un personaggio ambiguo in equilibrio tra salvaguardia della legalità e affarismo clientelare/mafioso (p. 255).

Intanto i 2.735 morti e gli 8.850 feriti fanno confluire nelle zone colpite «più di 50.000 miliardi gestiti con un impianto normativo improntato all’emergenza» e proprio grazie a quello «stato di eccezionalità e alle deroghe consentite ai comuni la camorra si inserisce attuando un’accorta e tempestiva strategia di intervento occupando come un’idra il settore edilizio» (p. 255). Torre dialoga con i partiti di sinistra affinché gli appalti non giungano fra le mani degli imprenditori corrotti, dei politici compiacenti e dei clan camorristi. Ma ha anche paura e sa che lo uccideranno. Per la Corte di Assise il sindaco gentile «avrebbe determinato un ostacolo» alla «infiltrazione» dei clan «nell’ente pubblico» mentre in Cassazione prevale la pista del conflitto di camorra. Nella guerra fra il clan paganese di Salvatore Serra (cliente dell’avvocato Torre) e la NCO di Cutolo, Torre ci avrebbe rimesso la vita per volere del professore di Ottaviano.
Sappiamo che la storia è sempre storia contemporanea (Croce dixit). E il libro di Ravveduto parla al nostro presente. Quanti sono i sindaci minacciati dalle mafie in Italia in questo momento? Il rapporto 2014 di Avviso Pubblico, «associazione di enti locali e regionali per la formazione civile contro le mafie», fotografa: 

    361 atti di intimidazione e di minaccia nei confronti di amministratori locali e funzionari pubblici (…), il 3% in più rispetto al 2013. (…) Una media di 30 intimidazioni al mese. Praticamente una ogni 24 ore. Il fenomeno (…) ha interessato 18 regioni, 69 province e 227 comuni, a dimostrazione di come, seppur in modo quantitativamente differenziato, quello delle minacce e delle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali e del personale della Pubblica Amministrazione sia un fenomeno che ha assunto un carattere nazionale.[5]

[1] G. De Luna, La Repubblica del dolore, Feltrinelli, Milano 2011, p. 83.
[2] D. Giglioli, Critica della vittima, Nottetempo, Roma 2014, p. 9.
[3] G. De Luna, op.cit., p. 19.
[4] P. Sorlin, Prefazione, in Familia. Fotografie e filmini di famiglia nella Regione Lazio, a cura di G. D’Autilia, L. Cusano, M. Pacella, Gangemi Editore, Roma 2009, p. 16
[5] Amministratori sotto tiro, Rapporto 2014 di Avviso Pubblico, rete dei Comuni contro le mafie.



Commenti

Post popolari in questo blog

Napoli, Baires: Maradonologia. Una bella chiacchierata con Pablo Alabarces

«Fútbol y Patria». «Peronistas, Populistas y Plebeyos». «Historia mínima del fútbol en América Latina». Questi sono solo tre titoli di una ricca produzione saggistica fatta di cronache politico-culturali e indagini sociologiche e letterarie. Chi vuole sapere di calcio e cultura popolare sudamericana deve passare per gli scritti di Pablo Alabarces e capirà qualcosa di cantanti mitologici come Palito Ortega, rock, tifoserie, sistema mediatico, violenza da stadio. Sociologo, argentino classe 1961, Alabarces è titolare di cattedra presso la UBA, l’Università di Buenos Aires. Lo incontriamo a Roma, zona Stazione Termini. Pablo è da poco rientrato nella capitale al termine di un bel soggiorno in una Napoli ebbra di festa per lo scudetto e dopo aver visitato Viggianello, borgo della Basilicata ai piedi del Pollino. «È la quinta volta che sono in Italia. Non ero mai stato nel paese dove nel 1882 nacque Antonio Carmelo Oliveto, mio nonno materno», ci racconta mentre ci incamminiamo verso Piazza

Remo Rapino, un undici fantastico e fantasioso

La storia del calcio è fatta anche di formazioni recitate tutte d’un fiato. Dal glorioso e drammatico incipit Bacigalupo-Ballarin-Maroso del Grande Torino al Zoff-Gentile-Cabrini – buono per la Juve di stampo trapattoniano e per l’Italia di Spagna ’82 – passando per il Sarti-Burgnich-Facchetti della Grande Inter del mago Herrera. Se, citando Eduardo Galeano oltre ad essere mendicanti di buon calcio, lo fossimo anche di letteratura ci sarebbe un nuovo undici da imparare a memoria. Un undici fantastico e fantasioso agli ordini dell’allenatore-partigiano Oliviero che fa così: Milo, Glauco, Osso Nilton, Treccani, Giuseppe, Wagner, Berto Dylan, Efrem Giresse, Pablo, Baffino, Nadir. Una squadra-romanzo piena del sapore della vita, che si confessa in prima persona. A immaginarla in Fubbàll (Minimum Fax, pp. 148, 16 euro) è stato Remo Rapino (1951), insegnante di storia e filosofia di stanza nell’abruzzese Lanciano e già premio Campiello 2020 con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio . 

Farsi una foto con Dios. L'intervista al fotografo Carlo Rainone

Sette anni fa Carlo Rainone (Palma Campania, 1989), fotografo-documentarista con un curriculum fatto di studi e collaborazioni internazionali, decide di scavare nel ventre della Napoli degli anni ’80, quelli, non solo, del dopo-terremoto, delle guerre di camorra e del contrabbando. Un immaginario che il cinema di questi anni sta riportando in superficie, dal Sorrentino di È stata la mano di Dio al Mixed by Erri di Sidney Sibilia senza dimenticare il Piano piano di Nicola Prosatore. L’obiettivo dell’indagine è assoluto, laborioso e faticoso ma il confronto costante con il fotografo Michel Campeau è di grande supporto. Bisogna infatti scovare la «foto con Maradona», il re della Napoli calcistica per sette tortuosi anni, il patrono pagano della moderna Partenope. Rainone inizia ad inseguire fotografie già scattate. Icone conservate in album di famiglia o piegate in portafogli, appese sui muri di negozi e laboratori, case, pizzerie e ristoranti. La consapevolezza sta tutta nelle parole