Era la sua festa. Anzi, no. La loro festa. I 60 anni di Nino D'Angelo
erano l'occasione giusta per unire il cantante con il "popolo delle sue
canzoni". Doveva essere un atto d'amore reciproco. E così è stato, in
uno stadio San Paolo con il sogno (malcelato) di vincere lo scudetto il
prossimo anno. D'Angelo non è solo la personificazione del suo popolo,
ma il suo punto di riferimento, l'esempio (nobile) da seguire. Un popolo
umile, educato, generoso, innamorato,
appassionato. Un popolo che conosce la fatica e il sudore del vivere
quotidiano. Un popolo che il segno di esistenze precarie e vite di
scarto ce l'ha disegnato sul viso. Un marchio che è un'eredità da
tramandandare di padre in figlio. Un popolo che forse non ha mai
conosciuto rappresentanza politica e che ieri lo ha confermato. Al
comparire del volto di De Magistris sullo schermo, ha lanciato fischi
sonori. Ovazioni per Merola, Troisi, Pino Daniele, De Filippo, Totò. Poco
coinvolgimento e un pizzico di disorientamento allo scandire il nome di Giancarlo Siani. Un popolo che
si è sentito rappresentato dalle canzoni d'amore del primo D'Angelo, in
cui il consumismo sfrenato degli anni '80 diventava il rifugio per una
vita sicura, tranquilla, "inclusiva", in linea con i tempi che devono
essere sempre moderni. Un popolo che, quasi quattro decenni dopo, cerca
ancora il re nel recinto della sua piccola patria. E Nino D'Angelo forse
lo è, con il suo viso da eterno bravo ragazzo che ce l'ha fatta,
aprendosi al mondo. Un Gianni Morandi tutto meridionale. Ieri D'Angelo
ha rivendicato la dignità della povertà. Lo ha fatto con animo sincero,
lontano da tossine populiste e paternaliste. Con trasporto, emozione,
riconoscenza. E se il ragazzo di Monghidoro cantava: "Uno su mille ce la fa", l'ex caschetto biondo non poteva non confessare davanti la sua Curva B: "Io sono la vittoria
di chi non conta nulla"
«Fútbol y Patria». «Peronistas, Populistas y Plebeyos». «Historia mínima del fútbol en América Latina». Questi sono solo tre titoli di una ricca produzione saggistica fatta di cronache politico-culturali e indagini sociologiche e letterarie. Chi vuole sapere di calcio e cultura popolare sudamericana deve passare per gli scritti di Pablo Alabarces e capirà qualcosa di cantanti mitologici come Palito Ortega, rock, tifoserie, sistema mediatico, violenza da stadio. Sociologo, argentino classe 1961, Alabarces è titolare di cattedra presso la UBA, l’Università di Buenos Aires. Lo incontriamo a Roma, zona Stazione Termini. Pablo è da poco rientrato nella capitale al termine di un bel soggiorno in una Napoli ebbra di festa per lo scudetto e dopo aver visitato Viggianello, borgo della Basilicata ai piedi del Pollino. «È la quinta volta che sono in Italia. Non ero mai stato nel paese dove nel 1882 nacque Antonio Carmelo Oliveto, mio nonno materno», ci racconta mentre ci incamminiamo verso Piazza
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