tag:blogger.com,1999:blog-83857860945671829182024-03-16T19:50:49.292+01:00Passioni. Il mondo di Andrea MecciaAndrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.comBlogger343125tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-22876059218486124102024-03-11T10:22:00.009+01:002024-03-16T08:00:42.370+01:00“La battaglia elettorale”, la recensione al volume “Schermi nemici”<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEipZ7zKEXK-j_SazIazCj8K9sFzc_v_GWQOYOBTavzPLBcxmanomjlcYVqpbQ75K5tHcasL_79inVdg38Km0niYhkQOK1SbokJkNLrh5dj_goHpUJ3bOHxfuHxrLDpCgg0_0cmNC1zd4UsyJyAsORisV2lXcai1cimofpSSbOOmKbmbOmk_RRI0SzBilXJg/s1200/scherminemici.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="800" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEipZ7zKEXK-j_SazIazCj8K9sFzc_v_GWQOYOBTavzPLBcxmanomjlcYVqpbQ75K5tHcasL_79inVdg38Km0niYhkQOK1SbokJkNLrh5dj_goHpUJ3bOHxfuHxrLDpCgg0_0cmNC1zd4UsyJyAsORisV2lXcai1cimofpSSbOOmKbmbOmk_RRI0SzBilXJg/s320/scherminemici.jpg" width="213" /></a></div><p style="text-align: justify;">Affermare che un libro di storia sia sempre un’opera di storia contemporanea non basta a
spiegare l’attualità di un volume che sa guardare, con un approccio interdisciplinare, ad
una particolare forma di produzione audiovisiva, il fu (?) cinema di propaganda. Parola
fulcro, quest’ultima, che ci serve a capire il lavoro di Mariangela Palmieri, docente di Storia
del cinema all’Università di Salerno le cui ricerche vertono sugli audiovisivi come fonte
storica. Ma di che oggetto stiamo parlando, dunque, e quale la contemporaneità della sua
analisi? Sotto la nostra lente vi sono le pagine di <i><b>Schermi nemici. I film di propaganda della
Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano (1948-1964)</b></i> uscito per Mimesis
Edizioni con la prefazione di Pierre Sorlin (Collana «Passato prossimo», pp. 182, 17 Euro).</p><p style="text-align: justify;">Un’opera che guarda ad un’epoca cronologicamente lontana ma storicamente ancora densa
di significati per il nostro presente. Almeno per due motivi. Il primo perché viviamo nella
cosiddetta società degli schermi – digitali ovviamente – in cui non c’è attività umana che
non passi per la totalizzante dimensione virtuale-è-reale. Il secondo perché a guardare bene
un pezzo di recente produzione cinematografica, sono diversi i film che si misurano con la
storia italiana nei suoi aspetti democraticamente più urgenti e controversi: il femminismo
nel <i>C’è ancora domani</i> di Paola Cortellesi; il ventennio fascista, la guerra e la «legge del
mare» nel discusso <i>Comandante</i> di Edoardo De Angelis; la migrazione in <i>Io capitano</i> di
Matteo Garrone (candidato all’Oscar 2024 come Miglior Film Internazionale) e l’irrisolta
questione lavoro-ambiente-salute nel lavorista <i>Palazzina Laf</i> di Michele Riondino. </p><p style="text-align: justify;">È quindi forse utile focalizzarsi sui meccanismi di costruzione del consenso – eredità della
stagione fascista e della «risplendente» stagione LUCE – e di una visione del mondo
gettando lo sguardo all’indietro, su di un’era in cui la scena politica italiana era dominata
dalla voluminosa presenza di Dc e Pci, i partiti maggiormente protagonisti del secondo
dopoguerra capaci di incarnare e diffondere, in un contesto di logica geo-politica bipolare,
valori e idee di società opposte (capitalismo versus comunismo). Uno scontro che nasceva
dalla contrapposizione Usa-Urss e che vedeva il suo nodo principale in un complesso
meccanismo di propaganda che passava anche per ciò che gli italiani guardavano sui
grandi schermi di allora. Perché la Dc e il Pci, rispettivamente partito di governo e di
opposizione, misero su sezioni cinematografiche che avevano il compito e lo scopo di
produrre, in autonomia o commissionando, film di propaganda sotto forma di opere di
fiction e non fiction, film d’animazione, corti, medi e lungometraggi, molti dei quali
rintracciabili sui canali web dell’Istituto Luigi Sturzo e dell’Archivio del movimento operaio e
democratico-AAMOD. </p><p style="text-align: justify;">Opere a cui l’autrice dà oggi nuova voce, facendole parlare, mettendole a confronto,
mostrando la vigorosa lotta tra i soggetti in gioco, le ideologie contrapposte, le conflittuali
narrazioni che puntavano i propri sguardi sulla stessa realtà italiana. Quella di un Paese
uscito a pezzi dalla Seconda guerra mondiale e che si misurava con una faticosa, ma poi
inarrestabile e tumultuosa, modernizzazione. È in questo contesto che nasce e si sviluppa
un grande corpus audio-visivo capace di rappresentare «l’identità dei due partiti» e le loro
«culture di riferimento» (la cattolica e la marxista) su cui l’analisi di <i>Schermi nemici</i> si tuffa,
(co)stringendo il tutto fra due anni chiave della storia italiana, interessanti punti di
orientamento in questa massacrante battaglia che vede dipanarsi le logiche ma anche le
grandi questioni della Guerra Fredda. Se il 1948 è infatti l’anno dell’entrata in vigore della
Costituzione repubblicana e delle elezioni del 18 aprile, dal canto suo, il 1964 raccoglie nei
suoi archivi la morte di Palmiro Togliatti, l’inaugurazione dell’Autostrada del Sole e il tentato
golpe De Lorenzo. </p><p style="text-align: justify;">Nei sette capitoli che compongono il volume, si scorgono e vengono a galla
progressivamente temi attualissimi: le battaglie contro l’astensionismo (<i>Può capitare da
noi</i>, Dc, 1949), la guerra e la pace (<i>Gli uomini vogliono la pace</i>, Pci, 1958), la questione
meridionale (<i>Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato</i>, Pci, 1949; <i>Nasce una speranza</i>, Dc,
1952), le figure dei leader (<i>Togliatti è ritornato</i>, Pci, 1948; <i>Alcide De Gasperi</i>, Dc, 1958), i
tentativi di rilettura della storia (<i>La via della libertà</i>, Pci, 1951; <i>Idolo infranto</i>, Dc, 1956).
Altrettanto numerosi sono gli elementi di differenza che emergono dall’analisi delle
strategie di propaganda dei due partiti. Alcuni esempi. Se il Pci parlava prevalentemente ai
suoi militanti con opere distribuite nei luoghi della militanza e della formazione comunista,
la Dc, grazie invece a una distribuzione trasversale capace di raggiungere sale parrocchiali
e commerciali, si rivolgeva invece ad un pubblico più ampio, fatto di «uomini della strada»
e nuovi elettori da convincere della bontà del proprio verbo. Se il Pci utilizzava dietro la
macchina da presa grandi autori del cinema di allora (Lizzani, Maselli, Pontecorvo, Petri,
Paolo e Vittorio Taviani) per porre un «sigillo di qualità» alle proprie opere, la Dc sceglierà
invece di strizzare l’occhio alla cultura di massa utilizzando, come testimonial, personaggi
di grande popolarità (Eduardo De Filippo, Aldo Fabrizi, Domenico Modugno). </p><p style="text-align: justify;">E qui forse sta l’elemento più interessante della ricerca di Mariangela Palmieri, ovvero del
rapporto che i due partiti e le loro strategie narrative hanno, da un punto di vista
linguistico, con la modernità. Allo stile documentaristico degli audiovisivi targati Pci, si
contrappone lo «stile più vario» fatto di documentario, finzione, sketch e cartoni animati
della Dc. Alla «cultura alta» portata avanti dal Pci risponde il linguaggio della Dc influenzato
dai «modelli di comunicazione politica americana». Il tutto, fino alla prima metà degli anni
’60, quando «inizia a farsi strada il marketing politico» e la comunicazione politica «si
adegua al piccolo schermo, mutuandone i linguaggi e l’immaginario politico di riferimento».</p><p style="text-align: justify;"><b><a href="https://ilmanifesto.it/cinema-di-propaganda-la-politica-in-sala-negli-anni-cinquanta" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato sabato 9 marzo 2024 su Alias-Il Manifesto.</a></b></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-7127407742955180692024-02-28T12:43:00.007+01:002024-03-16T08:01:02.164+01:00Senna e Prost. Sfida infinita<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiytNfSRvLFxTO8Xmbv38MNe69K-strH40XxWlO4W1CccuaQa9g722ijGzPXqlspp_l4l_jtzBkiKXLl1FrQhlcMN8BmtG3Q2tyrLWai5fmhYu3KO7z5bcTK7IdtSRe2ftXb3EXjdk9VYUpcVSLurOmtOMaAodCrWBrLMNE1ntsGx9Ij6nsWHnlk8rN9pzO/s1000/sennaprost.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1000" data-original-width="665" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiytNfSRvLFxTO8Xmbv38MNe69K-strH40XxWlO4W1CccuaQa9g722ijGzPXqlspp_l4l_jtzBkiKXLl1FrQhlcMN8BmtG3Q2tyrLWai5fmhYu3KO7z5bcTK7IdtSRe2ftXb3EXjdk9VYUpcVSLurOmtOMaAodCrWBrLMNE1ntsGx9Ij6nsWHnlk8rN9pzO/s320/sennaprost.jpg" width="213" /></a></div><br /><p style="text-align: justify;">Vittorie e sconfitte. Ostilità e alleanze. Amicizie e rivalità. Di questi ingredienti ama nutrirsi il racconto sportivo. Un genere narrativo che per entrare nell’immaginario collettivo ha bisogno però di un elemento che permetta agli ingredienti di fermentare e far giungere a perfetta lievitazione l’impasto di immagini e parole scelte, affinché la cronaca sappia andare al di là di sé stessa. Per farsi storia, epica, leggenda. Questo fattore determinante risponde al vocabolo «sfida» ed ha una serie di sinonimi su cui è interessante soffermarsi: minaccia, intimidazione, confronto, lotta, contesa, duello, provocazione.</p><p style="text-align: justify;">L’elenco ragionato di lemmi appena scorso è infatti il miglior strumento per affrontare la lettura e cogliere l’essenza di <i>Senna e Prost La sfida infinita</i>, l’ultimo libro di Umberto Zapelloni, pubblicato dalla casa editrice 66thand2nd nella collana «Vite inattese» (pp. 149, € 16,00). Perché quella che ricostruisce Zapelloni – già responsabile della redazione sportiva del Corriere della Sera, vicedirettore della Gazzetta dello Sport e testimone diretto della rivalità Senna-Prost – è la storia di un antagonismo così spietato che nella storia dello sport si fa fatica a ritrovare. Più di quello fra Bartali e Coppi nel ciclismo del secondo dopoguerra, oltre il dualismo Rivera-Mazzola nel calcio degli anni del boom o la rivalità targata Rossi-Biaggi nel motociclismo tra vecchio e nuovo secolo. In apertura di volume Zapelloni sottolinea come la loro battaglia non abbia conosciuto limiti e sia stata capace di ridisegnare, tra anni ‘80 e ’90, i confini di uno sport ad altissimo contenuto tecnologico, la Formula 1 in cui «il compagno di squadra sarà sempre il termine di paragone più importante per un pilota».</p><p style="text-align: justify;">I venti capitoli che compongono il libro raccontano dieci anni di automobilismo che prendono il via con il Gran Premio di Monaco datato 3 giugno 1984 per chiudersi con la violenta morte di Senna del Primo Maggio 1994 sul circuito di Imola. Nel mezzo lacrime, annunci, una finta pace e una pace armata, desideri di vendetta, rivendicazioni, messaggi di affetto, quieti apparenti, accuse, pole position, imprudenti partenze, sorpassi sotto la pioggia, pit stop, dialoghi con Dio, vittorie e sconfitte. I due piloti, per un periodo compagni di scuderia con licenza di guerreggiare fra loro in un dream team McLaren messo su da Ron Dennis (32 gran premi tra il 1988 e il 1989 e un mondiale ciascuno), infatti, «si sono sfidati a parole e fatti», «si sono disprezzati in pista e fuori», a un certo punto «non si guardavano neppure più», «non si parlavano tra di loro, ma si sfidavano attraverso la stampa e la televisione». Perché «avevano sempre qualcosa da dire», «un messaggio da mandare», «una sfida da lanciare».</p><p style="text-align: justify;">Da una parte Alain il professore francese nato a Lorette nel 1955, dall’altra il Magic Ayrton da San Paolo del Brasile classe 1960. Due piloti accomunati dalla voglia di vincere. Senna rischiando, Prost ragionando. Alain controllando «l’istinto con la mente». Ayrton inseguendo «la spettacolarità». Due orientamenti esistenziali verso uno sport in cui si guarda la morte negli occhi secondo per secondo. «Io non sono un pilota all’inizio di carriera dove il cuore conta in ogni situazione per mettersi in evidenza. Comunque ciascuno fa quel che vuole della propria vita e della vettura», dichiarava Alain al termine di un GP di Silverstone vinto sotto la pioggia da Senna nel luglio 1988.</p><p style="text-align: justify;">«Essere un pilota significa che stai correndo contro altri piloti. Se vedi un varco e non provi a infilarti significa che non sei più un pilota. Un pilota corre per vincere. La mia motivazione principale è la vittoria. Qualche volta posso sbagliare, qualche volta può andare diversamente da come tu avevi pensato. C’è chi si prende dei rischi, chi preferisce evitarli. Alla fine io sono un pilota che corre per vincere» risponderà Ayrton al tre volte campione del mondo Jackie Stewart dopo il secondo storico incidente di Suzuka, quello del 1990 che vedrà il brasiliano trionfare sul francese quell’anno passato alla Ferrari. La narrazione, nonostante il laborioso e certosino lavoro intorno alle citazioni delle loro dichiarazioni pubbliche, non rimane comunque tutta compressa sulla contrapposizione fra i due piloti ma si nutre anche della presenza di altri personaggi di grande spessore. Dal già citato presidente della McLaren Ron Dennis al francese Jean-Marie Balestre, a lungo presidente della Federazione internazionale dell’automobile (FIA), senza dimenticare l’avvocato Gianni Agnelli che vedeva in Prost e nei suoi riccioli una sorta di Platini soltanto un po’ meno spiritoso.</p><p style="text-align: justify;">Dalla corte ferrarista di Cesare Fiorio a cui Zapelloni dedica un capitolo alla figura di un altro grande pilota, il Leone d’Inghilterra Nigel Mansell, compagno e rivale di Prost alla Ferrari, capace di contendere un mondiale a Senna nel 1991 prima di salire sul tetto del mondo nel 1992 sfrecciando su di una Williams. Senna e Prost. La sfida infinita si offre a lettori e lettrici con una copertina disegnata da Osvaldo Casanova in cui vediamo le sagome dei due piloti di spalle e riconoscibili per via dei caschi che richiamano i colori delle bandiere francese e brasiliana.</p><p style="text-align: justify;">Questa illustrazione, in cui Senna appoggia la sua mano sinistra sulla spalla di Prost, sembra tradurre graficamente le ultime affettuose parole pronunciate da Ayrton all’ormai ex collega-rivale prima di correre il suo ultimo GP a bordo di una Williams: «E per cominciare un saluto al mio caro amico Alain Prost, che mi segue dal box. Alain, mi manchi». Andò proprio così il primo maggio di trent’anni fa, estremo epilogo di un tragico week-end sportivo che aveva già visto morire su quel circuito sabato 30 aprile il pilota austriaco Roland Ratzenberger. «Formula zero» avrebbe titolato il manifesto il 3 maggio. Il Brasile intanto piangeva, affranto e distrutto, il suo Magic Ayrton, l’uomo che, come non ricordare Lucio Dalla, faceva il pilota correndo veloce per la sua strada ma che ormai aveva chiuso gli occhi per riposare.</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://ilmanifesto.it/pablo-larrain-la-pecora-nera-del-cinema-cileno" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 24 febbraio<span style="text-align: left;"> 2024.</span></a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-6724041982452447962023-12-30T10:43:00.004+01:002024-03-16T08:01:36.547+01:00Il “mileismo” e i fili sciolti della dittatura militare. Intervista con il sociologo Pablo Semán<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEhjea9UffWaLszsTMzdElIXPPQIuC5PSTCBDJQXJPsUpkff-VpnF2wGkuUJK01wp4a_ZSLGHCXUPstMB9iP1OVoZCkluWdhWmpdI2uQmX1snveTqR4tSMPQOwvBFjTIqKPHHSoDUTimpDbj_TZ3gIXm_RssPhjN7vWvCUA22lrjzNYosAHh8a9ZCF6cZukH" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" data-original-height="202" data-original-width="360" height="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEhjea9UffWaLszsTMzdElIXPPQIuC5PSTCBDJQXJPsUpkff-VpnF2wGkuUJK01wp4a_ZSLGHCXUPstMB9iP1OVoZCkluWdhWmpdI2uQmX1snveTqR4tSMPQOwvBFjTIqKPHHSoDUTimpDbj_TZ3gIXm_RssPhjN7vWvCUA22lrjzNYosAHh8a9ZCF6cZukH" width="320" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;">«In queste ore, in Argentina, si registrano diversi stati d’animo. E, ovviamente, tanta incertezza. Da un lato, grande angoscia negli ambienti kirchneristi e peronisti per quello che potrebbe essere il nuovo governo. Dall’altro, speranza in Javier Milei e gioia per aver distrutto il kirchnerismo». A scattare questa fotografia, a pochi giorni dal risultato elettorale che ha visto il trionfo di Milei e del suo partito La Libertad Avanza (LLA), è Pablo Semán, sociologo e antropologo dell’Università di San Martín. In apertura di conversazione Semán sottolinea: «Tra chi è uscito battuto dalle urne, sembra esserci una specie di negazione o di illusione che il nuovo governo abbia vita breve. Il tutto appare un modo di negare a sé stessi la sconfitta. Credo poi che il sentimento della vittoria, il piacere di aver liquidato il kirchnerismo, non appartenga solo alla classe alta, così come la rabbia per la sconfitta non stia solo nelle classi popolari. Come queste sensazioni si relazionino però con i gruppi sociali è ancora troppo presto per dirlo».</span></div></div><p></p><p style="text-align: justify;"><b>Semán, che tipo di destra rappresentano Milei e la LLA?</b></p><p style="text-align: justify;">La sua è una destra vigorosa, di ispirazione libertaria. Una destra estrema che punta su uno Stato minimo, sul libero commercio e sul massimo rispetto della proprietà privata. In Argentina questa destra si articola a partire da un conflitto contro il kirchnerismo e i sintomi dell’inefficienza statale. C’è anche un sentimento antifemminista ma non possiamo considerarlo la sua massima forza propulsiva. Le spinte maggiori sono la critica dello Stato, della politica e dell’economia. Il mileismo è una espressione di queste tre crisi.</p><p style="text-align: justify;"><b>Cosa ha detto Milei al Paese durante la sua campagna elettorale?</b></p><p style="text-align: justify;">Molte cose… dalla vendita degli organi alla legalizzazione del porto d’armi. Su alcune di esse non ha poi fatto ritorno o ha detto che erano esperimenti teorici, come la questione degli organi o la compravendita di bambini. In generale, ha fatto sempre proposte estreme che a seconda del contesto raccontava con più o meno moderazione. L’obiettivo era avere un elettorato il più ampio possibile.</p><p style="text-align: justify;"><b>Proviamo a leggere tra i dati del voto.</b></p><p style="text-align: justify;">Nel cosiddetto <i>interior</i>, le zone interne del Paese, Milei ha avuto maggior successo che a Buenos Aires città e Buenos Aires provincia. Il voto giovanile per Milei è stato molto importante. Tra le cause, anche qui, la critica dello Stato, della politica e dell’economia, e le condizioni di lavoro informale e precario. I sentimenti di rabbia e antipolitica non spiegano tutto. Milei è riuscito a costruire una immagine di futuro.</p><p style="text-align: justify;"><b>La pandemia che ruolo ha giocato?</b></p><p style="text-align: justify;">La pandemia ha catalizzato gli effetti della crisi mettendo al centro di tutto l’incapacità della politica di agire. Il combustibile spirituale del mileismo, dopo dieci anni di crescita costante dell’inflazione, è la questione economica.</p><p style="text-align: justify;"><b>Queste elezioni arrivano a quarant’anni dal ritorno dell’Argentina alla vita democratica. Che valore assume quindi il risultato elettorale?</b></p><p style="text-align: justify;">È la prima volta che vince un partito tanto di destra per governare l’economia argentina. La democrazia inaugurata nel 1983 ha avuto crisi catastrofiche nel 1989 e nel 2001. Quella di oggi, che ancora non ha la forma di una rottura istituzionale, rischia di minare alcuni fondamenti democratici, come il pluralismo e la pace sociale. C’è il rischio di vedere la repressione come una variante centrale nella azione di governo.</p><p style="text-align: justify;"><b>Ci sono quindi legami con le esperienze politiche del passato?</b></p><p style="text-align: justify;">Il mileismo raccoglie i fili sciolti e moribondi dell’esperienza della dittatura militare e recupera con forza l’esperienza di Menem da un punto di vista delle liberalizzazioni. Ovviamente questa è una destra diversa. Ma Milei, nonostante una distanza generazionale, appartiene alla stessa famiglia politica liberale, mercatista e autoritaria di chi ci ha già governato in passato, dittatura compresa.</p><p style="text-align: justify;"><b>Lei ha parlato del voto mileista come un voto contro la casta. Chi rappresenta la casta in Argentina?</b></p><p style="text-align: justify;">Milei ha chiamato “casta” la dirigenza politica degli ultimi quarant’anni. La casta è un significante abbastanza denso e autonomo con cui Milei sceglie chi ne fa parte e chi non. Ad esempio, Macri e Menem, da questo punto di vista, non vi rientrano.</p><p style="text-align: justify;"><b>Nel progetto politico di Milei, come stanno insieme <i>nacionalismo</i> e <i>dolarización</i>?</b></p><p style="text-align: justify;">Molti suoi votanti sono globalisti. Considerano la nazione come uno spazio di ordine e disciplina e la dollarizzazione per loro significa la disciplina monetaria che la politica argentina non è in grado di garantire e che, attraverso le sue articolazioni statali, considerano una specie di ente di emissione incontrollata di moneta.</p><p style="text-align: justify;"><b>Che relazione avrà con la Chiesa cattolica argentina e con Bergoglio?</b></p><p style="text-align: justify;">Milei flirta con il fondamentalismo religioso evangelico – in Argentina ci sono molti evangelici ma non tutti sono fondamentalisti – e con una parte del fondamentalismo ebraico. Non sappiamo quale sarà il livello di pragmatismo che contraddistinguerà il suo governo. Al momento predominano in lui atteggiamenti dogmatici ed estremisti. Credo che la distanza con il Papa rimarrà la realtà predominante.</p><p style="text-align: justify;"><b>Che tipo di azione politica può opporsi realmente al mileismo?</b></p><p style="text-align: justify;">Peronismo, radicalismo, sinistra peronista, partiti più centristi come Cambiemos e pezzi del partito di Macri, devono riflettere su ciò che è accaduto in modo improrogabile, altrimenti continueranno a perdere. A questo lavoro devono partecipare organizzazioni sindacali e sociali, movimenti territoriali e mondo intellettuale. Se non ci sarà un rinnovamento, continueranno a commettere gli errori di sempre.</p><p style="text-align: justify;"><b>Alla luce di queste elezioni, che sapore ha oggi la stagione del kirchnerismo?</b></p><p style="text-align: justify;">L’era kirchnerista ha un sapore dolce per un settore sempre più minoritario della popolazione. I giovani che ne hanno vissuto l’ultima fase non ne hanno un buon ricordo se non attraverso i loro padri. Dal 2011, la sua unica politica è stata l’autocelebrazione. E oggi è un ostacolo per il rinnovamento della sinistra e delle forze democratico-popolari. Ricorda la metafora dal cane dell’ortolano. Né mangia, né lascia mangiare.</p><p style="text-align: justify;">*L'intervista è stata pubblicata su <a href="https://ilmanifesto.it/il-mileismo-e-i-fili-sciolti-della-dittatura-militare" target="_blank">IlManifesto.it</a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-80355393033506783072023-11-20T15:35:00.003+01:002023-11-20T15:36:37.989+01:00Masterclass Mediamafia, incontro con il drammaturgo Alessandro Gallo<div style="text-align: center;"><iframe allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture; web-share" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/uEB52TEjAFc?si=EoIRQ9NbforahJoE" title="YouTube video player" width="560"></iframe></div><p style="text-align: justify;"><b>“𝑄𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑎 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖𝑐𝑖 𝑎𝑛𝑛𝑖 ℎ𝑜 𝑠𝑐𝑜𝑝𝑒𝑟𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑖 𝑒𝑟𝑎 𝑚𝑖𝑜 𝑝𝑎𝑑𝑟𝑒 𝑙𝑒𝑔𝑔𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑢𝑛 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑎𝑙𝑒, ℎ𝑜 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑜𝑣𝑒𝑣𝑜 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑐𝑒𝑙𝑡𝑎. 𝑂 𝑠𝑜𝑡𝑡𝑜𝑙𝑖𝑛𝑒𝑎𝑟𝑒 𝑠𝑢𝑏𝑖𝑡𝑜 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑎𝑝𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒𝑛𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑎𝑙 𝑠𝑢𝑜 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜, 𝑜𝑝𝑝𝑢𝑟𝑒 𝑖𝑛𝑣𝑒𝑐𝑒 𝑠𝑜𝑡𝑡𝑜𝑙𝑖𝑛𝑒𝑎𝑟𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑎𝑝𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒𝑛𝑒𝑣𝑜 𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑚𝑎𝑑𝑟𝑒, 𝑎 𝑢𝑛 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑝𝑢𝑙𝑖𝑡𝑜, 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑠𝑎𝑐𝑟𝑖𝑓𝑖𝑐𝑖. 𝑈𝑛’𝑒𝑟𝑒𝑑𝑖𝑡𝑎̀ 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎, 𝑒𝑑 𝑒̀ 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑐ℎ𝑒 ℎ𝑜 𝑠𝑐𝑒𝑙𝑡𝑜”.</b></p><p><span style="text-align: justify;"></span></p><p style="text-align: justify;">Così Alessandro Gallo racconta di sé. Napoletano, classe 1986, Gallo oggi vive a Bologna dove ha fondato l'associazione e casa editrice Caracò e dove si occupa di educazione alla legalità e di progetti di teatro civile. La sua storia, le sue esperienze e il suo lavoro, frutto di un percorso di emancipazione e liberazione dalle logiche camorristiche in cui è nato e cresciuto, faranno da sfondo al nuovo e atteso appuntamento con la masterclass #Mediamafia per riflettere insieme sul racconto mediale delle mafie.</p><p><span style="text-align: justify;">Progetto "Gli immaginari delle mafie: un centro di documentazione e ricerca - RIMa" (Responsabile scientifico Marcello Ravveduto)</span></p><p style="text-align: justify;">Università di Salerno, 13 novembre 2023</p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-19204823638102527532023-11-05T12:39:00.005+01:002024-02-28T12:46:37.876+01:00Remo Rapino, un undici fantastico e fantasioso<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg14vusKuCXgrC8rGUWvL6YZhjzlOO4wdDleKhCdwU15CECIN4Q-VyEJaknOPYnuxwxE8S4AHLagEp38gJm65U1Wk6aTpV74U4fZ-HxgGP9FrcEK6i5CXDULSgF5QMqHWjysXCOrewGPt-TGhMh7Nmfhh4c0q_2MHFA_1yklOSfim9VEWzpOyT3xHjqo0OW/s1000/fubb%C3%A0ll.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1000" data-original-width="700" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg14vusKuCXgrC8rGUWvL6YZhjzlOO4wdDleKhCdwU15CECIN4Q-VyEJaknOPYnuxwxE8S4AHLagEp38gJm65U1Wk6aTpV74U4fZ-HxgGP9FrcEK6i5CXDULSgF5QMqHWjysXCOrewGPt-TGhMh7Nmfhh4c0q_2MHFA_1yklOSfim9VEWzpOyT3xHjqo0OW/s320/fubb%C3%A0ll.jpg" width="224" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div>La storia del calcio è fatta anche di formazioni recitate tutte d’un fiato. Dal glorioso e drammatico incipit Bacigalupo-Ballarin-Maroso del Grande Torino al Zoff-Gentile-Cabrini – buono per la Juve di stampo trapattoniano e per l’Italia di Spagna ’82 – passando per il Sarti-Burgnich-Facchetti della Grande Inter del mago Herrera. Se, citando Eduardo Galeano oltre ad essere mendicanti di buon calcio, lo fossimo anche di letteratura ci sarebbe un nuovo undici da imparare a memoria. Un undici fantastico e fantasioso agli ordini dell’allenatore-partigiano Oliviero che fa così: Milo, Glauco, Osso Nilton, Treccani, Giuseppe, Wagner, Berto Dylan, Efrem Giresse, Pablo, Baffino, Nadir. Una squadra-romanzo piena del sapore della vita, che si confessa in prima persona. A immaginarla in <i>Fubbàll</i> (Minimum Fax, pp. 148, 16 euro) è stato Remo Rapino (1951), insegnante di storia e filosofia di stanza nell’abruzzese Lanciano e già premio Campiello 2020 con <i>Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio</i>. <p></p><p style="text-align: justify;"><b>Professor Rapino, partiamo dal titolo. Cos’è questo «Fubbàll»?</b></p><p style="text-align: justify;"><i>Fubbàll</i> è un dialettismo con cui abbiamo trasformato la parola <i>fútbol</i>. I <i>fubbàllisti</i> sono i calciatori e il <i>fubbàll</i> è solo un pretesto per raccontare fatti reali. Storie quotidiane di giocatori che sognano, cadono per poi rialzarsi. Un gioco interessante potrebbe essere capire a chi sono ispirati i racconti.</p><p style="text-align: justify;"><b>Queste pagine sono un tuffo nel passato o sono un atto di nostalgia verso il futuro?</b></p><p style="text-align: justify;">Credo che si debba avere un diritto alla nostalgia e non al rimpianto, che è parola crudele. Nella letteratura sudamericana con i racconti di calcio si sono aggirate le censure. Queste sono storie di libertà. </p><p style="text-align: justify;"><b>Nell’undici di Oliviero, ritrova spazio il ruolo del libero, il palermitano Treccani.</b></p><p style="text-align: justify;">Casualmente ho scoperto un filmato di una finale di Coppa Italia, vinta dalla Juventus nel 1979 ai supplementari con un gol di Causio contro il Palermo. Da lì, ho immaginato questo capitano che incitava i compagni recitando l’Enrico V di Shakespeare. L’ho chiamato Treccani rompendo il pregiudizio dei calciatori poco avvezzi alle letture. Il suo monologo è un esempio di come i rimandi fra realtà e immaginazione siano continui. Per disegnarlo ho anche rievocato l’Obdulio Varela, capitano dell’Uruguay campione del mondo 1950, raccontato da Soriano. </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjhMLHCk_FDqmESKF_1OZc53rN0hnLPz5PWvHj-_FN_5bN1tuRR0-t5MOZcanzGRWdgaikDz1ryFi-CX_76Qdgz5vTKWwKBwD3SPxPvePe3ZBNBtyyKytrezeiTWQpBce3J6BLsL_KhMwC5Gs39LT7s9b4rzLpj1DFMYcIZlVClllRqNz_XpM55JfgUYs7Q/s1600/WhatsApp%20Image%202023-11-04%20at%2012.22.47.jpeg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1600" data-original-width="1103" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjhMLHCk_FDqmESKF_1OZc53rN0hnLPz5PWvHj-_FN_5bN1tuRR0-t5MOZcanzGRWdgaikDz1ryFi-CX_76Qdgz5vTKWwKBwD3SPxPvePe3ZBNBtyyKytrezeiTWQpBce3J6BLsL_KhMwC5Gs39LT7s9b4rzLpj1DFMYcIZlVClllRqNz_XpM55JfgUYs7Q/s320/WhatsApp%20Image%202023-11-04%20at%2012.22.47.jpeg" width="221" /></a></div><p style="text-align: justify;"><b>«Fubbàll» è un album con calciatori immaginari ma a volte riconoscibili, ognuno portatore di un punto di vista sul mondo. Chi è il primo personaggio che ha immaginato?</b></p><p style="text-align: justify;">L’ultimo in ordine di lettura, l’allenatore-partigiano. Un personaggio ispirato a un uomo realmente vissuto. Giuseppe Baccilieri, ciabattino, era un calciatore bolognese che girava l’Italia per «per sfangare la vita». Venne a Lanciano come allenatore-giocatore e partecipò alle giornate ottobrine del ’43, la rivolta antinazista e antifascista della città. Poi entrò nella Brigata Maiella e partecipò alla liberazione di Bologna. Era un uomo molto semplice. Mio padre era stato suo allievo come portiere. </p><p style="text-align: justify;"><b>Dove sono rimaste le riserve di questo undici ideale?</b></p><p style="text-align: justify;">Non ci sono. Una volta le sostituzioni non c’erano e questo rendeva i giocatori ancora più eroici.</p><p style="text-align: justify;"><b>Citando Pasolini, cosa sono per lei il calcio in prosa e il calcio in poesia?</b></p><p style="text-align: justify;">Il calcio in prosa è una fitta rete di passaggi che dà l’idea delle relazioni che si creano sul campo. Quello in poesia è immediato. Un tiro al volo improvviso. La creatività di un momento. Qualcosa che non ti aspetti.</p><p style="text-align: justify;"><b>Ogni racconto è preceduto da una citazione letteraria. Ne sceglie una?</b></p><p style="text-align: justify;">«Il calcio è il regno della lealtà umana esercitata all’aria aperta». Sono parole di Antonio Gramsci.</p><p style="text-align: justify;"><b>Le troviamo a centrocampo, dove schiera Efrem Giresse…</b></p><p style="text-align: justify;">Una volta lessi la biografia di un promettente calciatore franco-senegalese del Saint-Étienne, la squadra di Platini, che a 18 anni si infortuna gravemente. La sua storia carica di speranze è un viaggio, una caduta, un naufragio. Lo soprannomino Giresse, in onore di Alain Giresse, intelligentissima mezz’ala della Francia degli anni ’70-’80. </p><p style="text-align: justify;"><b>Cosa hanno in comune il portiere e le ali?</b></p><p style="text-align: justify;">Essere solitari e creativi. </p><p style="text-align: justify;"><b>Ci racconta il suo numero 7, Berto Dylan? </b></p><p style="text-align: justify;">Dylan è ispirato a un calciatore reale, cresciuto in un orfanotrofio. Era nato a Casarsa, il paese dove Pasolini è sepolto. Fu suo amico come lo fu del cantautore Piero Ciampi. Suonava la chitarra, cantava e scriveva poesie. Ha giocato con Napoli, Padova, Vicenza. Ha allenato i bambini e non sopportava l’invadenza dei genitori. Aveva un sogno: allenare una squadra di soli orfani. </p><p style="text-align: justify;"><b>Stiamo parlando di Ezio Vendrame?</b></p><p style="text-align: justify;">Sì, Berto Dylan è ispirato a lui.</p><p style="text-align: justify;"><b>Rapino, ha scritto questo libro nell’epoca dei dati applicati allo sport e dei petrodollari. Che effetto le fa vederlo </b><b>pubblicato?</b></p><p style="text-align: justify;">È stata una coincidenza significativa. Credo che rispetto al sistema calcio siamo giunti a un punto di non ritorno. La bellezza del calcio – questo è il senso di questo libro – è ciò che accade sul rettangolo di gioco. </p><p style="text-align: justify;"><b>Ecco, cos’è un campo di calcio?</b></p><p style="text-align: justify;">Un luogo di libertà estrema e di vita. Il campo di calcio è un luogo di accoglienza e di accettazione della diversità. Il gesto più bello sta nell’aiutare qualcuno che è caduto a rialzarsi.</p><p style="text-align: justify;"><b>Torniamo ai personaggi. Nel suo undici, chi avrebbe sempre il posto da titolare?</b></p><p style="text-align: justify;">Oltre a Treccani, ci sarebbe sempre spazio per il semi-inventato numero dieci, una mezz’ala che ricordava Mario Frustalupi e che io chiamo, senza alcun riferimento a D’Alema, Baffino. </p><p style="text-align: justify;"><b>Come mai questa scelta?</b></p><p style="text-align: justify;">Suo papà era un comunista e anche lui – Davide Bertelli il suo nome – ha avuto esperienze politiche. Ha giocato anche a Lanciano ed era titolare ovunque andasse. Aveva un colpo di tacco che ricordava il brasiliano Sócrates.</p><p style="text-align: justify;"><b>Rileggendo <i>Fubbàll</i> che sentimenti prova?</b></p><p style="text-align: justify;">Lo leggo con distacco, come se lo avesse scritto qualcun altro. Ma quando lo prendo in mano, mi sento un compagno di viaggio di personaggi a cui ho dato voce. <i>Fubbàll</i> è un libro sulle marginalità e sul diritto a essere presenti nella storia.</p><p style="text-align: justify;"><b>Professore, in chiusura, il suo cuore per quale squadra batte?</b></p><p style="text-align: justify;">Per il Bologna. Da bambino mi portarono a vedere una partita al Dall’Ara. Era il 1964, l’anno dello scudetto. Allo stadio c’era questo striscione: «Così si gioca solo in paradiso».</p><p><a href="https://ilmanifesto.it/remo-rapino-un-undici-fantastico-e-fantasioso" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 4 novembre<span style="text-align: left;"> 2023.</span></a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-73120887513819240412023-11-01T19:09:00.002+01:002023-11-01T19:48:45.717+01:00Masterclass Mediamafia, incontro con lo sceneggiatore Ezio Abbate<div style="text-align: center;"><iframe allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture; web-share" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/teOzUxgJYYQ?si=gyFs4mj-4xaPI3Iv" title="YouTube video player" width="560"></iframe></div><p style="text-align: justify;">Ezio Abbate è tra i creatori di diverse serie Tv tra cui spiccano, nella rappresentazione della storia della criminalità organizzata, <i>Le mani dentro la città</i> (Mediaset, 2014), tra le prime opere a raccontare la presenza della ‘ndrangheta in Lombardia, le quattro stagioni di <i>Suburra</i> (Netflix), capaci di ridisegnare l’immaginario della criminalità organizzata nella città di Roma in un’epoca segnata dall’inchiesta “Mondo di mezzo” e <i>L'Ora - Inchiostro contro piombo</i>, le vicende ambientate negli anni ’50 dello storico quotidiano siciliano che condusse importanti inchieste su Cosa Nostra. Nel 2022, Abbate ha poi firmato<i> Centoventisei </i>(Mondadori), il suo primo romanzo scritto insieme a Claudio Fava, che ricostruisce le ore precedenti all’attentato contro il giudice Borsellino del 19 luglio 1992. Il romanzo è stato anche oggetto di una traduzione teatrale. Abbate ha inoltre scritto il cortometraggio sul dramma della migrazione nel Mediterraneo <i>Frontiera</i>, regia di Alessandro Di Gregorio, vincitore di un David di Donatello nel 2019.</p><p style="text-align: justify;">Progetto "Gli immaginari delle mafie: un centro di documentazione e ricerca - RIMa" (Responsabile scientifico Marcello Ravveduto)</p><p style="text-align: justify;">Università di Salerno, 25 ottobre 2023</p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-31645685810883123322023-11-01T19:05:00.003+01:002023-11-01T19:48:28.247+01:00Masterclass Mediamafia, incontro con l'attrice Daniela Marra<div style="text-align: center;"><iframe allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture; web-share" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/K0oM8unY-Is?si=SJEjmHIU69pk5lUt" title="YouTube video player" width="560"></iframe></div><p style="text-align: justify;">Daniela Marra ha recitato in diverse opere audiovisive che hanno raccontato la criminalità organizzata e il terrorismo nel nostro Paese. Marra ha da poco concluso le riprese di <i>Iddu</i>, regia di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, opera liberamente ispirata alla figura del boss Matteo Messina Denaro. Marra ha inoltre recitato in <i>Esterno notte</i> del maestro Marco Bellocchio, dove ha interpretato il ruolo della brigatista Adriana Faranda. Nella sua carriera, ricordiamo poi il ruolo di Maria Marruso ne <i>Le mani dentro la città</i> (serie Tv Mediaset, 2014), personaggio ispirato alla figura di Lea Garofalo, quello di Assunta, vedovo di un soldato di ‘ndrangheta nel film <i>La terra dei santi</i> di Ferdinando Muraca (2015), le partecipazioni a <i>Squadra antimafia</i> (serie TV Mediaset) e <i>Il cacciatore</i> (serie Tv Rai) tratto dal volume <i>Cacciatore di mafiosi</i> del magistrato Alfonso Sabella. Daniela Marra ha recitato nella serie Tv <i>L'Ora - Inchiostro contro piombo</i>, in cui ha interpretato il ruolo della giornalista Enza Cusumano.</p><p style="text-align: justify;">Progetto "Gli immaginari delle mafie: un centro di documentazione e ricerca - RIMa" (Responsabile scientifico Marcello Ravveduto)</p><p style="text-align: justify;">Università di Salerno, 12 ottobre 2023</p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-78768571508563844772023-09-17T21:50:00.008+02:002023-11-05T12:47:17.669+01:00Larraín, il corpo e la storia. Recensione al volume di Emanuele Rauco<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg7rcpcISvwUal2q9jq881VRyKFMcJMpC41qTROcqfUKNg2wpG1Y3fGK2DJJCv1t741M0t37Jmw0Nm7Pwq7k09yCCdr2gnITNJjoEihZ7gZPdll3VLjA7ih-EbOGZfXqCxd37jFn2f6XCxZXB6ZFtvVkjUMac-JisQ_k0ics-cDN7m_rDxW1CDP1d3aUxbS/s1000/larrain.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1000" data-original-width="659" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg7rcpcISvwUal2q9jq881VRyKFMcJMpC41qTROcqfUKNg2wpG1Y3fGK2DJJCv1t741M0t37Jmw0Nm7Pwq7k09yCCdr2gnITNJjoEihZ7gZPdll3VLjA7ih-EbOGZfXqCxd37jFn2f6XCxZXB6ZFtvVkjUMac-JisQ_k0ics-cDN7m_rDxW1CDP1d3aUxbS/s320/larrain.jpg" width="211" /></a></div><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><div style="text-align: justify;">Il corpo e la storia. Queste le parole chiave con cui si sviluppa l’analisi della cinematografia di Pablo Larraín, autore cileno in concorso a Venezia 2023 con <i>El Conde</i>, commedia dark/horror e probabile metafora del Cile contemporaneo con il dittatore Pinochet nei panni di un vampiro.</div><p style="text-align: left;"></p><p style="text-align: justify;">A sezionare la complessa e ricca filmografia di questo regista nato a Santiago nel 1976, tre anni dopo il golpe ai danni del Cile democratico targato Salvador Allende Gossens, è Emanuele Rauco, critico cinematografico, membro della Commissione di selezione del Festival di Venezia e da poche settimane direttore artistico della rassegna in riva al Lago Trasimeno «Castiglione del Cinema».</p><p style="text-align: justify;">La prefazione del suo volume (<i>Pablo Larraín. Il corpo e la storia</i>, pp. 150, 16 euro, Bietti) è affidata invece alla firma di Alberto Barbera. Nelle prime pagine, il direttore artistico della Mostra di Venezia sottolinea come il lavoro compiuto vada ad indagare, attraverso un suo esponente di respiro mondiale, una cinematografia, quella cilena, pressoché trascurata nel nostro Paese. Eccezion fatta forse per registi di culto e militanti come Miguel Littín e Patricio Guzmán o per quel pugno di autori di fama internazionale (Raoul Ruiz, Alejandro Jodorowski, Alejandro Amenábar) costretti all’esilio durante gli anni bui della dittatura.</p><p style="text-align: justify;">«Pablo Larraín, visto dal Cile, è un cineasta talentuoso e allo stesso tempo controverso non solo perché il suo cinema si è misurato con il nostro passato più doloroso, ma anche per la sua estrazione familiare. Larraín è nato in una famiglia di «classe alta» e politicamente da sempre legata alla destra cilena. Possiamo considerarlo una sorta di «pecora nera» della famiglia ma questo fattore biografico genera divisione. Inoltre, con suo fratello Juan de Dios è il titolare della Fábula, la casa di produzione dei suoi film. In Cile, c’è un rapporto di amore-odio con la sua figura», ci racconta Víctor Hugo Ortega C., professore di cinema presso la Universidad Mayor di Santiago. Ortega offre al nostro sguardo elementi che il volume ha il merito di tenere in considerazione, puntando con forza lo sguardo su appassionanti nodi concettuali.</p></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgjaZRFIsLo07-bCptV8cgLzXITXcHiLPNuCklXswLQyG5_PVa89V1oqPCxckEI7ZBPWm4duzNz9jR-4EhTxTnDI1YTPSkP7P1KPxv0d4fh5W08BKNinj4TgaTBvL4ikWBJGxJLIEqAYcovSidElx-uRGBo7WOQLYUf-ic2hiyTsPBnayWHffw_drE130RA/s1827/Alias%20-%2016%20Settembre%202023_230916_130534-6_page-0001.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1782" data-original-width="1827" height="195" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgjaZRFIsLo07-bCptV8cgLzXITXcHiLPNuCklXswLQyG5_PVa89V1oqPCxckEI7ZBPWm4duzNz9jR-4EhTxTnDI1YTPSkP7P1KPxv0d4fh5W08BKNinj4TgaTBvL4ikWBJGxJLIEqAYcovSidElx-uRGBo7WOQLYUf-ic2hiyTsPBnayWHffw_drE130RA/w200-h195/Alias%20-%2016%20Settembre%202023_230916_130534-6_page-0001.jpg" width="200" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><p style="text-align: justify;">Il corpo e la storia, si diceva in apertura. Già. Proprio su di essi si struttura il cinema di Pablo Larraín che Rauco, a sua volta – grazie anche a un dialogo diretto con il regista che impreziosisce la lettura del saggio – scompone ed esamina lungo più prospettive: dall’analisi storica a quella contenutistica, dalla scelta delle inquadrature a quella degli obiettivi.</p><p style="text-align: justify;">Assi che nel libro tendono a convergere grazie all’analisi di undici opere (dieci film e una serie Tv, <i>La storia di Lisey</i>) realizzate tra il 2008 e i nostri giorni. Un’operazione che ci restituisce dimensioni fra loro dialoganti e così denominate: «Il corpo della storia» e «La storia del corpo». È al loro interno che l’autore mescola un tema da sempre oggetto di discussione medico-giuridico-filosofica e una disciplina che si misura con lo scorrere del tempo, il suo racconto, la sua analisi che nella dimensione cinematografica trova un fertile e incandescente terreno di discorso pubblico.</p><p style="text-align: justify;">Ancor di più in questi giorni in cui – insieme alle polemiche politico-culturali di matrice veneziana (vedi il caso <i>Comandante</i> di Edoardo De Angelis) – ricorre il cinquantesimo anniversario del golpe datato 11 settembre 1973. Un’occasione per far vivere di nuovi significati, insieme alla visione di <i>El Conde</i> (su Netflix dal 15 settembre), la rilettura della cosiddetta «trilogia del regime».</p><p style="text-align: justify;">Un corpus di opere composta da: <i>Tony Manero</i> (2008), il film che ha permesso a Larraín di farsi conoscere a livello internazionale grazie alla storia di un serial killer (interpretato da Alfredo Castro, suo attore simbolo) che negli anni della dittatura è ossessionato dal John Travolta de <i>La febbre del sabato sera</i>; <i>Post Mortem</i> (2010), opera che mette al centro della narrazione «la figura, o meglio il cadavere» di Allende sottoposto a «crudele» autopsia; <i>No. I giorni dell’arcobaleno</i> (2012), prima co-produzione con Francia e Stati Uniti, non un «dramma politico» ma «un film sulla politica e sui suoi meccanismi comunicativi» con Gael García Bernal nei panni di un pubblicitario rientrato dall’esilio.</p><p style="text-align: justify;">Con l’ultimo atto della trilogia, Larraín conquista «l’attenzione di un pubblico non strettamente cinefilo» e contestualmente inizia a «lavorare a un diverso livello di ampiezza e complessità produttive».</p><p style="text-align: justify;">Dopo lo sferzante attacco alla chiesa cilena con <i>Il Club</i> – film che affronta la questione pedofilia (Orso d’argento a Berlino 2015) – Larraín partorisce una nuova trilogia su tre icone storiche e la loro moderna «mitologia», tre riletture del biopic «sul confronto tra identità pubblica e privata»: Pablo Neruda, Jacqueline Kennedy e Lady Diana.</p><p style="text-align: justify;">Per raccontarcele Rauco sceglie di concentrarsi su precisi elementi: la pancia del poeta (<i>Neruda</i>, 2016); il sangue e il cervello di JFK (<i>Jackie</i>, 2016); le viscere della principessa «assediata» che «non vuole essere una diva» (<i>Spencer</i>, 2021). Particolari materici osservati nella loro dimensione storica e cinematografica.</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://ilmanifesto.it/pablo-larrain-la-pecora-nera-del-cinema-cileno" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 16 settembre<span style="text-align: left;"> 2023.</span></a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-90281420545579662372023-09-07T12:19:00.008+02:002024-03-16T08:02:04.195+01:001990, Italia-Argentina. La recensione al volume “Quando eravamo felici” di Corrado De Rosa<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgGCQwOcNq6TNVUVez4aW3usz3GsjZAXsRnwNsrOXn_fTynVBu1BGpLFYPbzehNPfrP9K548V_JFUaHPU9e3LL6NuKA7ZzOnvijqd_j9hJO8F4HaFOJ75gDwTUCeO8J76D0RkLjFO-VPcCBM4uQ5Gf1WsoX9xaQQlxtK_z02dxWMWCoXqgTGgHXmlJqKFiH/s2480/quando-eravamo-felici-2589.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2480" data-original-width="1736" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgGCQwOcNq6TNVUVez4aW3usz3GsjZAXsRnwNsrOXn_fTynVBu1BGpLFYPbzehNPfrP9K548V_JFUaHPU9e3LL6NuKA7ZzOnvijqd_j9hJO8F4HaFOJ75gDwTUCeO8J76D0RkLjFO-VPcCBM4uQ5Gf1WsoX9xaQQlxtK_z02dxWMWCoXqgTGgHXmlJqKFiH/s320/quando-eravamo-felici-2589.jpg" width="224" /></a></div><br /><p style="text-align: justify;">Se, camminando tra gli scaffali di una libreria, la vostra attenzione dovesse ricadere sulla copertina di un libro dallo sfondo azzurro che ospita la sagoma incompleta di un pallone e otto mattoncini tricolore disordinatamente distribuiti, la percezione del rischio di essere travolti da un’operazione editoriale costruita sulle emozioni e sui rimpianti di un tempo lontano potrebbe essere avvertita in maniera netta e decisa. Anche perché gli elementi grafici sono lì per accompagnare un titolo (<i>Quando eravamo felici</i>) e un sottotitolo (<i>Italia-Argentina 1990: la partita da cui tutto finisce</i>) che rimandano la memoria collettiva all’estate tutta italiana di trentatré anni fa. Quella delle «Notti magiche» cantate in un rock cortese e garbato da Edoardo Bennato e Gianna Nannini. La bella – fino ad un certo punto – stagione del secondo mondiale disputatosi nel nostro Paese, cinquantasei anni dopo quelli di epoca fascista che videro l’Italia conquistare la prima Coppa Rimet ai danni della Cecoslovacchia. </p><p style="text-align: justify;">E invece, l’operazione che lo psichiatra-giallista Corrado De Rosa (1975) – scrittore che di mafie, camorre e terrorismi ne mastica e ne scrive – compie in questa sua nuova opera letteraria ha il sapore di una nostalgia immune da spiriti reazionari. Un desiderio possente che assomiglia a quello descritto da Ermanno Rea nelle prime pagine del suo ultimo romanzo intitolato, appunto, <i>Nostalgia</i> (Feltrinelli): «La parola “nostalgia” nasce dall’abbinamento di due vocaboli della lingua greca classica: <i>nóstos</i>, che significa “ritorno”, e <i>álgos</i>, che vuol dire “dolore”. Pur trattandosi di un lemma di conio abbastanza recente, la parola nostalgia sembra insomma far parte del nostro bagaglio genetico, del nostro “arcano” di esseri umani. Ogni uomo la sperimenta di continuo, perché le voci che gli giungono dal suo passato hanno sempre un fascino irresistibile».</p><p style="text-align: justify;">De Rosa è quindi «mostruosamente» sedotto da un passato a cui guarda con sofferenza, un tempo in cui affondano inevitabilmente le radici del nostro presente. Un’epoca vicina e lontana che le sue parole non smettono mai di interrogare lungo le 292 pagine (bibliografia d’obbligo compresa) che compongono questo libro edito da Minimum Fax. E per capire l’Italia di allora – quella temporalmente compressa tra la caduta del Muro di Berlino e le stragi del ’92-’93, tra il mito del benessere e il trionfo sciolto da ogni vincolo del berlusconismo, tra la fine della Guerra Fredda e i nuovi (dis)ordini mondiali – sceglie una città, una data, un evento sportivo. </p></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><br /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi5RhnOgIiLh9PT2uFrkbx4n1jtCqmGffmyS-8uBAuQWLl53c1OAkDthMKZE7XCXM1ALuWQwbUjhQwfzqNgmU3zEGjHTsG_zxwdQAs1nzU31f3Bd6gIvnYuRf-QtbdCL-v_mXaQ2rJ_-L-LpqxACU-aaMoIa3Moci9rCqUI_vLoYQIT0ua3JxFtfsZs1uXA/s2048/1.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi5RhnOgIiLh9PT2uFrkbx4n1jtCqmGffmyS-8uBAuQWLl53c1OAkDthMKZE7XCXM1ALuWQwbUjhQwfzqNgmU3zEGjHTsG_zxwdQAs1nzU31f3Bd6gIvnYuRf-QtbdCL-v_mXaQ2rJ_-L-LpqxACU-aaMoIa3Moci9rCqUI_vLoYQIT0ua3JxFtfsZs1uXA/s320/1.jpg" width="240" /></a></div><br /><p style="text-align: justify;">Il fulcro attorno cui si muove la narrazione di <i>Quando eravamo felici</i> è la semifinale del mondiale di Italia ’90 fra Italia ed Argentina, match che si disputò nell’allora stadio San Paolo di Napoli il 3 luglio del 1990 e seguito in Tv da «ventisette milioni e 537.000 spettatori». La prima partita che in quel mondiale la nazionale guidata dal «papà buono» Azeglio Vicini gioca lontano dallo Stadio Olimpico di Roma, nel tempio laico dell’ultimo dio pagano comparso sulla Terra: Diego Armando Maradona. Su quel prato verde, il 29 aprile di quell’anno, battendo la Lazio, Diego e compagni erano riusciti a regalare ai tifosi napoletani un nuovo storico scudetto, il secondo nel giro di pochi anni, un anno dopo il trionfo europeo nella notte tutta azzurra di Stoccarda del 17 maggio 1989. </p><p style="text-align: justify;">Quella sera di luglio, l’ultimo ostacolo che gli azzurri trovano sul proprio cammino è la nazionale <i>albiceleste</i> campione del mondo in carica, una squadra poco spettacolare ma difficilissima da battere, ostica e antipatica, guidata dal medico e «uomo di mondo» dalle grandi narici Carlos Salvator Bilardo, capitanata con orgoglio estremo e sagace destrezza politica proprio da Maradona. Un uomo, <i>el pibe de oro</i>, che davanti a flash e telecamere ricorda l’arte oratoria di Cassius Marcellus Clay poi Muhammad Ali, la sua capacità di creare polemiche e destabilizzare gli avversari nelle proprie certezze. </p><p style="text-align: justify;">Nelle ore precedenti l’incontro, Maradona dirà: «Mi disgusta che ora tutti chiedano ai napoletani di essere italiani e di tifare contro la <i>Selección</i>. Napoli è stata sempre emarginata dal resto d’Italia, l’hanno condannata al razzismo più ingiusto». Italia-Argentina è quindi lo strumento per raccontare un’epoca storica con un punto di vista che sa essere locale e globale, uno sguardo avido di una quantità titanica di notizie, aneddoti, citazioni interdisciplinari che la scrittura torrenziale di De Rosa riesce a non far uscire dagli argini del fiume narrativo. </p><p style="text-align: justify;">I centoventi minuti più gli sfortunati – ahinoi – rigori di quella sera illuminano il <i>conducator </i>Ceausescu e il «pioniere della statistica applicata al campo» Lobanowskij, l’Italia dell’uccisione dello studente-bracciante sudafricano Jerry Masslo e delle televendite di Roberto da Crema, i fulgori reaganiani e le politiche di Gorbaciov, la figura di Craxi e del «cerimoniere del mondiale» Luca Cordero di Montezemolo, star del calibro di Vialli, Zenga e Baggio da contrapporre agli sguardi, figli di differenti meridioni, dell’irpino «terremotato» De Napoli e del palermitano Totò Schillaci, capocannoniere con sei gol in sette partite. </p><p style="text-align: justify;"><i>Quando eravamo felici</i> si apre con un’ucronia, una rivisitazione immaginaria di come quel mondiale andò a finire. Un esercizio letterario utile a fare i conti con un evento nazional-popolare che «non muore mai». Perché Italia ’90, come sottolineato in più punti, assurge in qualche modo a una sorta di «pagina nera» della storia repubblicana. Gli stadi «giurassici» e «disfunzionali» trasformati in «monumento all’opulenza fine a sé stessa», i «678 infortuni e 24 morti nei cantieri», la spesa di «6868 miliardi» rispetto ai «3151 previsti» sono lì a raccontarlo. </p><p style="text-align: justify;">Una situazione storico-sportiva che assume le sembianze di un «fantasma» che «si nasconde» e «si insinua», reclamando giustizia. Un momento collettivo che «si è fatto carico dei nostri sogni e li ha interrotti», preparandoci a «un’epoca di passioni tristi e disillusioni spietate». Gli anni ‘90. La fine dei partiti. Il tramonto del sol dell’avvenire. La seconda Repubblica. La cosiddetta, fallacemente, fine della Storia.</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://ilmanifesto.it/italia-argentina-1990-la-partita-da-cui-tutto-fini" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 26 <span style="text-align: left;">agosto 2023.</span></a></p><p></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-19157061094365535942023-07-31T15:43:00.007+02:002023-09-09T00:41:40.392+02:00Farsi una foto con Dios. L'intervista al fotografo Carlo Rainone<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgOQdyTLQIKWJgxWM09KTmR0KR5m_CC0nCngwb0XShnDtTHGVk982IsUqieMrUhKvfl7vL8M_iunSlx8jnyeYkKv8Na4XwRPd1u2OClYFoym_aGKQ6jTq606eTlFXFp5Jgn71v6wlHDr8_oYnYU4iWWAz2PSK4jMoMZ1_XBTgP02XG8jB5QwYcP47XomaOi/s550/lafotocondios.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="550" data-original-width="440" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgOQdyTLQIKWJgxWM09KTmR0KR5m_CC0nCngwb0XShnDtTHGVk982IsUqieMrUhKvfl7vL8M_iunSlx8jnyeYkKv8Na4XwRPd1u2OClYFoym_aGKQ6jTq606eTlFXFp5Jgn71v6wlHDr8_oYnYU4iWWAz2PSK4jMoMZ1_XBTgP02XG8jB5QwYcP47XomaOi/s320/lafotocondios.jpg" width="256" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;">Sette anni fa Carlo Rainone (Palma Campania, 1989), fotografo-documentarista con un curriculum fatto di studi e collaborazioni internazionali, decide di scavare nel ventre della Napoli degli anni ’80, quelli, non solo, del dopo-terremoto, delle guerre di camorra e del contrabbando. Un immaginario che il cinema di questi anni sta riportando in superficie, dal Sorrentino di <i>È stata la mano di Dio</i> al <i>Mixed by Erri</i> di Sidney Sibilia senza dimenticare il <i>Piano piano</i> di Nicola Prosatore. L’obiettivo dell’indagine è assoluto, laborioso e faticoso ma il confronto costante con il fotografo Michel Campeau è di grande supporto. Bisogna infatti scovare la «foto con Maradona», il re della Napoli calcistica per sette tortuosi anni, il patrono pagano della moderna Partenope. Rainone inizia ad inseguire fotografie già scattate. Icone conservate in album di famiglia o piegate in portafogli, appese sui muri di negozi e laboratori, case, pizzerie e ristoranti. La consapevolezza sta tutta nelle parole di Susan Sontag: «Le fotografie sono oggetti fragili, che si rompono o si smarriscono con facilità». Da questa attività di ricerca nasce <i>La foto con Dios. Napoli 1984-1991</i> (Il Saggiatore, pp. 136, euro 29). Un libro-album di centoventi immagini i cui titoli e didascalie denominano, definiscono, spiegano. Raccontando.</div><p></p><p style="text-align: justify;"><b>Carlo, come hai mosso i primi passi di questa avventura da fotografo-ricercatore?</b></p><p style="text-align: justify;">Nel 2017 stavo lavorando a un progetto fotografico sui Napoli club della Campania. Nel frattempo, volevo lavorare anche sul materiale d’archivio, per indagare gli anni in cui Maradona aveva giocato nel Napoli. Un’epoca a cui ho sempre guardato con fascinazione. La scintilla è scattata quando ho incontrato Alberto Petillo, un tifoso del Napoli che mi ha aperto il suo archivio. Lì c’era una foto di Maradona con una giapponese in kimono di nome Michiho Ando. Michiho si innamorò di Diego guardando in Tv i mondiali del 1986 e decise di venire a Napoli per farsi una foto con il suo idolo. Vedendo quell’immagine ho intuito che nelle case dei napoletani poteva nascondersi un tesoro immenso che rispondeva a una nuova categoria iconografica: la foto con Diego, la foto con Dios.</p><p style="text-align: justify;"><b>La ricerca come si è strutturata?</b></p><p style="text-align: justify;">Ho messo annunci sui social e sui giornali. Ho fatto volantinaggio quartiere per quartiere. Una volta trovato un indizio o la traccia di una foto, la cosa più complicata era guadagnare la fiducia del possessore incontrandolo, spiegando il progetto del libro, facendomi raccontare la storia della foto e recuperando in qualche modo quell’oggetto-reliquia. L’opzione «prestito» non era immaginabile.</p><p style="text-align: justify;"><b>Come diventava «tua» la foto?</b></p><p style="text-align: justify;">Ho messo in atto un servizio di scansione a domicilio. In alcuni casi ho dovuto invece rifotografare la foto per strada, dove avvenivano gli incontri. E poi viaggiavo sempre con un pacchetto di liberatorie per la questione diritti.</p><p style="text-align: justify;"><b>Il Diego che hai riportato in superficie rischiava di essere un Maradona perduto?</b></p><p style="text-align: justify;">Questo lavoro ha salvato e dato una nuova connotazione a delle immagini che nascevano con l’intento primario di custodire, a uso personale e familiare, la foto con quella sorta di «sacra sindone» che era Maradona. Di certo, la gran massa di foto visionate e raccolte oggi è un documento storico che abbiamo reso pubblico e che rende visibile la connessione tra Diego e i napoletani. Una connessione che non immaginavo così forte.</p><p style="text-align: justify;"><b>Come si compiva questo rito fotografico in un’epoca pre-digitale?</b></p><p style="text-align: justify;">Per fare «quella foto», oltre ai contatti giusti per arrivare a Diego, era necessario avere con sé l’attrezzatura ed essere dotati di una capacità tecnico-fotografica non scontata. Ho incontrato tante persone che lo hanno conosciuto ma non hanno una foto con lui perché non pronti a fare click. Ogni foto nasconde una volontà forte di farsi uno scatto con Diego che si compiva soltanto attraverso una fase preparatoria forte e meticolosa. Ogni foto è un rituale. Di momenti rubati non ce ne sono.</p><p style="text-align: justify;"><b>Ci racconti un aneddoto?</b></p><p style="text-align: justify;">Nel luglio del 1986 tre amici di Gragnano decisero di andare a Lodrone, in Trentino, dove il Napoli era in ritiro. L’obiettivo era «la foto». Prima di partire emerse il problema dei problemi: «Se incontrassimo Diego, a chi di noi tre toccherebbe scattare?». La soluzione fu portare con sé un amico fotografo a cui pagarono viaggio, vitto e alloggio.</p><p style="text-align: justify;"><b>Quali sono i momenti, i luoghi e i personaggi più ricorrenti di questa tua galleria fotografica?</b></p><p style="text-align: justify;">Senza dubbio il Centro Sportivo Paradiso, dove il Napoli si allenava e dove i tifosi sapevano di poterlo incontrare. Poi, le inaugurazioni dei Napoli club e dei negozi in cui la sua presenza rappresentava una specie di buon auspicio di successo. Infine, quelle in cui entrava in situazioni private: compleanni, battesimi, comunioni.</p><p style="text-align: justify;"><b>Com’è stato organizzato nel volume il racconto di queste icone?</b></p><p style="text-align: justify;">L’universo iconografico ruota attorno ad un’unica persona, con un volto che si ripropone e che categorizza gli scatti: la foto con Maradona. Ci siamo lasciati quindi guidare da un gusto estetico che desse un senso di linearità e di scorrevolezza senza tenere conto di cronologia ed elementi narrativi interni alle immagini.</p><p style="text-align: justify;"><b>Come definiresti lo sguardo che attraversa il libro?</b></p><p style="text-align: justify;">Benevolo. Quello di Diego è uno sguardo che testimonia una affettuosità spontanea. Maradona è sempre molto cosciente di ciò che accade attorno a lui perché si prestava a questi riti fatti di incontri e di fotografie. Lo si vede soprattutto nelle foto con i bambini. Non a caso, una delle ossessioni che mi ha accompagnato era la foto dell’unico battesimo in cui Diego ha fatto da padrino. Ho immaginato questa foto per anni e alla fine ce l’abbiamo fatta.</p><p style="text-align: justify;"><b>Quando si parla di fotografia, il concetto di fuori campo non può essere tenuto in disparte. Cosa hai visto e non sei riuscito a mettere nel volume?</b></p><p style="text-align: justify;">Tante foto in bassa qualità purtroppo inutilizzabili. Dopo l’uscita del libro, ho invece ricevuto una foto via mail per conto del maestro Carmine Coppola, ultimo erede della maschera di Pulcinella. Siamo negli spogliatoi dell’allora San Paolo e vediamo Coppola insieme a Maradona che nelle mani ha una foto e, ovviamente, una maschera di Pulcinella. La ricerca continua.</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://ilmanifesto.it/carlo-rainone-una-foto-con-dios" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 29 luglio 2023.</a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-16255584741178801012023-06-19T15:32:00.004+02:002023-06-21T16:32:51.987+02:00Napoli, Baires: Maradonologia. Una bella chiacchierata con Pablo Alabarces<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1K463_exMlT-xYK1S0R6_i1IjLZnsb5z07FsQbajOEpGLMEkatQmuYAGE6offQTCdLVIu1tgs6C9yWoVHzQQsLNNQU_PnPuswElrdJ7VbDHfMHXqf2W2U_Khq0zf-25ISSGfy5h7Zr7ElGqNxoxlRwBhf6Z6d5TjOUW1Bh7ztzXS_m884lH4Q9YHPZkrK/s1080/1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1080" data-original-width="1080" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1K463_exMlT-xYK1S0R6_i1IjLZnsb5z07FsQbajOEpGLMEkatQmuYAGE6offQTCdLVIu1tgs6C9yWoVHzQQsLNNQU_PnPuswElrdJ7VbDHfMHXqf2W2U_Khq0zf-25ISSGfy5h7Zr7ElGqNxoxlRwBhf6Z6d5TjOUW1Bh7ztzXS_m884lH4Q9YHPZkrK/s320/1.jpg" width="320" /></a></div><br /><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">«Fútbol y Patria». «Peronistas, Populistas y Plebeyos». «Historia mínima del fútbol en América Latina». Questi sono solo tre titoli di una ricca produzione saggistica fatta di cronache politico-culturali e indagini sociologiche e letterarie. Chi vuole sapere di calcio e cultura popolare sudamericana deve passare per gli scritti di Pablo Alabarces e capirà qualcosa di cantanti mitologici come Palito Ortega, rock, tifoserie, sistema mediatico, violenza da stadio.</div><p style="text-align: justify;">Sociologo, argentino classe 1961, Alabarces è titolare di cattedra presso la UBA, l’Università di Buenos Aires. Lo incontriamo a Roma, zona Stazione Termini. Pablo è da poco rientrato nella capitale al termine di un bel soggiorno in una Napoli ebbra di festa per lo scudetto e dopo aver visitato Viggianello, borgo della Basilicata ai piedi del Pollino.</p><p style="text-align: justify;">«È la quinta volta che sono in Italia. Non ero mai stato nel paese dove nel 1882 nacque Antonio Carmelo Oliveto, mio nonno materno», ci racconta mentre ci incamminiamo verso Piazza della Repubblica. Un’ultima notte romana e poi ad attenderlo ci sarà un volo per Buenos Aires via Francoforte.</p><p style="text-align: justify;"><b>Pablo, lo scudetto del Napoli è un momento storico che ovviamente non poteva sfuggire al tuo sguardo. Ma quando e perché hai deciso di fare il biglietto?</b></p><p style="text-align: justify;">È stata una ispirazione. Quando ho capito che il Napoli avrebbe vinto e ho visto che l’ultima partita si sarebbe giocata in casa ho organizzato il tutto. C’è un altro elemento che ha messo in moto tutto questo.</p><p style="text-align: justify;"><b>Raccontacelo…</b></p><p style="text-align: justify;">Questo elemento si chiama Diego Armando Maradona. Alla sua figura dobbiamo aggiungere due meravigliose casualità: le vittorie dell’Argentina ai mondiali di México ‘86 e Qatar 2022 e i successivi scudetti del Napoli nel 1987 e nel 2023. Non c’è causa-effetto tra le due cose, <i>claro</i>, ma c’è una tale bellezza in questa casualità che volevo osservare.</p><p style="text-align: justify;"><b>Quando hai iniziato a studiare la figura di Maradona?</b></p><p style="text-align: justify;">Era il 1991, quando si stava per chiudere la sua parabola italiana. Ricordo che vidi in VHS un bellissimo documentario di fine anni ’80 sul primo scudetto del Napoli. Lo aveva girato Bernard Bloch, un regista francese e si intitolava <i>Napoli corner</i>. Nel mercato spagnolo era stato distribuito con il titolo <i>Maradona y el Napoli</i>. E poi lessi il <i>Te Diegum</i>, il volume curato da Vittorio Dini e Oscar Nicolaus. Nel corso dei miei studi in realtà, mi sono concentrato più sul Maradona nella sua relazione con la nazione argentina che con la città di Napoli.</p><p style="text-align: justify;"><b>Questo viaggio ti metterà in crisi adesso.</b></p><p style="text-align: justify;">Ho detto a mia moglie che venire a Napoli in questo periodo è stata la miglior decisione presa nella mia vita accademica. E credo che sia anche una specie di coronamento. È qualcosa di molto forte.</p><p style="text-align: justify;"><b>Cosa è rimasto nei tuoi occhi?</b></p><p style="text-align: justify;">La presenza continua, assoluta, debordante – metro per metro potremmo dire – della figura di Diego. Il murales dei Quartieri Spagnoli poi è impressionante. Ci sono murales a Buenos Aires, ma non sono luoghi di culto popolare – e commerciale – paragonabili a quello di Napoli. E poi le bandiere, le sciarpe, gli striscioni che festeggiano il terzo scudetto che includono l’immagine di Maradona. Questa presenza così forte non c’è a Buenos Aires e non c’è in tutta l’Argentina.</p><p style="text-align: justify;"><b>Come te lo spieghi?</b></p><p style="text-align: justify;">Napoli è una città maradoniana. In Argentina non abbiamo città maradoniane anche se Maradona è il più grande simbolo nazional-popolare del Paese. Buenos Aires ha uno stadio intitolato a Diego, quello dell’Argentinos Juniors, ma <i>futbolísticamente</i> è una città divisa. Oltre a River Plate, San Lorenzo, Vélez e Huracán, abbiamo due squadre maradoniane: l’Argentinos e il Boca. La visibilità di Diego nella quotidianità napoletana e nel giorno della partita contro la Sampdoria mi ha impressionato. Vicino alle icone di Osimhen e Kvaratskhelia, lui c’era sempre.</p><p style="text-align: justify;"><b>Questo Napoli è un gruppo multietnico. C’è un solo argentino, Giovanni Simeone, e non ha un campione riconosciuto e carismatico come Maradona. Che idea ti sei fatto della squadra?</b></p><p style="text-align: justify;">Tutti questi elementi giocano a favore del mito di Diego. Nessuno può sostituirlo simbolicamente.</p><p style="text-align: justify;"><b>Viviamo in un’epoca di iperproduzione iconica e mediatica. Facciamo un passo indietro. Torniamo agli anni ‘80. Che immagine arrivava in Argentina della Napoli di allora?</b></p><p style="text-align: justify;">Abbiamo visto poco di quella squadra di cui però ricordo i due brasiliani, Careca e Alemão. Vedevamo a malapena i gol. Non c’erano speciali Tv. Qualcosa in più sui giornali, sulla rivista <i>El Gráfico</i> ma non dimentichiamo che <i>Olé</i> – il primo grande quotidiano sportivo argentino – è del 1996. Ciò che sapevamo di Maradona era più mitico che informativo. Stesso discorso per il periodo in cui Diego fu al Barcellona nei primi anni ’80. Non ricordo un’immagine vista allora. Poi abbiamo recuperato tutto, grazie a Youtube.</p><p style="text-align: justify;"><b>Cos’è la maradonologia?</b></p><p style="text-align: justify;">Lo studio di uno dei più grandi calciatori della storia del calcio paragonabile solo a Pelé e Messi, ma soprattutto di una figura umana fuori dal comune, fenomenale, eccezionale e unica dal punto di vista politico, culturale e sociale. Per studio, intendo la possibilità di pensare, interpretare, comprendere un fenomeno.</p><p style="text-align: justify;"><b>Quali strumenti si possono utilizzare per studiarlo?</b></p><p style="text-align: justify;">Tutti quelli che le scienze sociali mettono a disposizione. Fino a che era in vita era tutto più difficile, perché la sua biografia offriva continuamente nuovi elementi. La maradonologia ci obbliga ad una cosa però.</p><p style="text-align: justify;"><b>Quale?</b></p><p style="text-align: justify;">A prendere distanza e a non lasciarsi coinvolgere affettivamente. Ci sono elementi della sua vita poi – il suo rapporto con le donne o con i figli, ad esempio, più che la droga e le vicende giudiziarie – che ci interrogano anche moralmente.</p><p style="text-align: justify;"><b>L’Argentina è terra di grandi uomini di letteratura che con il calcio sanno dialogare. Se pensiamo a grandi scrittori del passato, chi avresti visto bene camminare per le strade della Napoli di questa primavera?</b></p><p style="text-align: justify;">Osvaldo Soriano, da gran <i>bugiardo</i> e grande narratore qual era, si sarebbe divertito molto. E poi, quel gran umorista di Roberto Fontanarrosa non sarebbe stato da meno.</p><p style="text-align: justify;"><b>Pablo, cosa metterai nella valigia del ritorno?</b></p><p style="text-align: justify;">Qualche giorno fa a Napoli ho comprato due cose. Il libro della mia infanzia, <i>Cuore</i> di Edmondo De Amicis e la maglietta con la scritta «Chi ama non dimentica». Una frase che mi ha profondamente colpito.</p><p style="text-align: justify;"><b>In chiusura, torniamo ai Quartieri Spagnoli, torniamo a largo Maradona. Se chiudi gli occhi, cosa vedi, cosa senti?</b></p><p style="text-align: justify;"><i>Amor</i>. Amore. Non c’è altra parola. Napoli amava Maradona. Napoli ama Maradona.</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://ilmanifesto.it/napoli-buenos-aires-maradonologia" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 17 giugno 2023.</a></p><p style="text-align: justify;"><br /></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-35561911250444442023-05-29T16:43:00.003+02:002023-05-29T16:49:24.719+02:00Fantasmi tra i portici nella Bologna anni '50<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhjuEZLCD3fNaduvULqtAPMTCw4eCSdh86ylRMPSB1xzW75sLkE4Yp7YM0ajLZ5K2776PkEBhgr1_aQFWWhKMv13JFgc59fGD1Ek6QND0P41ZNy9HxK7ebxrRwfk7vKIexVsQYl0DqCB8EVLqEOzawPYeXbbcmJAA2n-9riBccaGgRWec1B-1w_S5s_lA/s700/1.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="700" data-original-width="464" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhjuEZLCD3fNaduvULqtAPMTCw4eCSdh86ylRMPSB1xzW75sLkE4Yp7YM0ajLZ5K2776PkEBhgr1_aQFWWhKMv13JFgc59fGD1Ek6QND0P41ZNy9HxK7ebxrRwfk7vKIexVsQYl0DqCB8EVLqEOzawPYeXbbcmJAA2n-9riBccaGgRWec1B-1w_S5s_lA/s320/1.jpg" width="212" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;">«Un romanzo apocrita è un romanzo che non vuole nascondere nulla, un romanzo privo di ipocrisia. Per scriverlo, è come se mi fossi seduto attorno a un fuoco con degli amici o in una stalla, come ero abituato a fare da bambino con mio padre che raccontava storie. Storie sempre popolate da fantasmi. E ho voluto raccontare una storia di fantasmi anche io, mescolando realtà, fantasia e invenzione, usando un linguaggio non contemporaneo e non dimenticando che i fantasmi sono sempre arrabbiati perché hanno lasciato qualcosa in sospeso con la vita». Loriano Macchiavelli (1934) – scrittore, sceneggiatore, drammaturgo, maestro del noir, autore della serie con protagonista Sarti Antonio, sodale da un punto di vista letterario di Francesco Guccini – racconta così <i>I fantasmi si vestono nudi</i>, la sua ultima fatica in libreria (Solferino, pp. 208, 16 euro).</div><p></p><p style="text-align: justify;">Un romanzo storico abitato da spettri, ambientato nella città di Bologna nel contesto dell’agitata e nervosa Italia degli anni Cinquanta. Un’Italia sì repubblicana e democratica ma ancora piena di tossine legate alla dittatura fascista, ostaggio del rigido centrismo democristiano e in faticosa lotta per l’affermazione dei valori costituzionali. «Ho vissuto quei giorni. Ero un giovane come Santo, il protagonista della storia», sottolinea Macchiavelli. «C’era una gran voglia di fare, di ricostruire, di ripartire. Ricordo quel vulcano di Giuseppe Dozza, l’allora sindaco di Bologna. Sono legato con gioia a quel periodo pieno di slanci generosi e per questo ho aperto una finestra proprio lì, senza dimenticare le tensioni di quegli anni: Scelba, Tambroni, gli scioperi, i morti di Modena e Reggio Emilia».</p><p style="text-align: justify;">E nell’inquietudine di allora, lungo i portici di San Luca con i loro serpeggianti giochi di luce e di ombre, prende corpo questa narrazione. «Ho voluto ambientare la storia in questo luogo perché da ragazzo, non avendo nulla da fare alla sera, andavo a passeggiare lì. Al buio. E mentre si camminava si sentivano delle presenze. Ricordo la Certosa con i lumini sulle tombe e quell’enorme ciminiera del monumento ai caduti. C’era il piacere di non sentirsi soli», spiega Macchiavelli mentre introduce il personaggio di Santonastasii Claudio di anni diciassette, per gli amici, come detto, Santo. Figlio di un operaio-partigiano che non c’è più, Santo è un ragazzo «muto, pensieroso, deluso da come sta andando la sua vita». Diviso tra il sogno di diventare corridore professionista perché in salita credeva di andare «piuttosto bene» e un sicuro lavoro come apprendista in una industria tipografica dove, oltre al «puzzo di olio lubrificante», bisogna fare i conti con i manganelli della celere. In officina, dove si perde «la voglia di fare l’amore», Santo inizia a diventare grande e capire, a proprie spese, che «la Resistenza non finisce mai». Accanto alla sua vicenda che lo costringerà a indossare le vesti di indagatore, c’è quella di Crisantemia, «ovvero Eleonora Zanasi, una bella ragazza di diciotto anni che si veste nuda», una «bella di notte», una «spettra, piacevole, disinibita, colta» che continua a vivere in attesa di una qualche forma di giustizia che faccia i conti con la sua morte.</p><p style="text-align: justify;">Una fine violenta consumatasi in un orfanotrofio e che temporalmente sposta l’attenzione di chi legge all’aprile del 1945, quando mancavano ormai poche ore alla Liberazione di Bologna dall’oppressione nazi-fascista. L’entrata in scena di Crisantemia mette in crisi la già difficile vita di Santo. Come spiegare a sua madre o ai suoi amici di essersi innamorato di una ragazza morta e senza vestiti? Come distinguere se ciò che accade appartiene al sogno o alla vita? E quando Crisantemia – in un libero adattamento dello stesso autore – reciterà i versi de La Tempesta di William Shakespeare, cosa accadrà nella testa di Santo? «Tutta la mia storia letteraria è legata al teatro», ricorda infine Loriano Macchiavelli. E <i>I fantasmi si vestono nudi</i>, omaggio alla Resistenza bolognese, non è riuscito a sottrarsi a questo felice e fortunato destino.</p><p> <a href="https://ilmanifesto.it/loriano-macchiavelli-fantasmi-tra-i-portici-nella-bologna-anni-50" style="text-align: justify;" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 27 maggio 2023.</a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-76695374528453506942023-05-29T16:38:00.013+02:002023-05-29T16:49:31.054+02:00Rocco Carbone, futuribili distopie<p style="text-align: justify;"></p><p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiifiIAMuwAlNITTJUe8c5TIewLq3LoTSVHM24F96PhlKY19lG7CBeY85wm6dO28KT_6ahfQtWr7yQz6XqfqLFbA-uSCWK5WieVNDTbKc3LBHNHPzFrRyYxBy0hTQd11tunxc-3pG8xc23U67iN-G7sCUGWq6LL3OWe4Ha8HLyYrj7SvMFeb9u-6ze8Yg/s837/1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="837" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiifiIAMuwAlNITTJUe8c5TIewLq3LoTSVHM24F96PhlKY19lG7CBeY85wm6dO28KT_6ahfQtWr7yQz6XqfqLFbA-uSCWK5WieVNDTbKc3LBHNHPzFrRyYxBy0hTQd11tunxc-3pG8xc23U67iN-G7sCUGWq6LL3OWe4Ha8HLyYrj7SvMFeb9u-6ze8Yg/s320/1.jpg" width="205" /></a></div><br />La casa editrice calabrese Rubbettino ha deciso di ridare nuova vita alle opere narrative di Rocco Carbone, scrittore-critico nato nel 1962 a Reggio Calabria e cresciuto nel borgo aspromontano di Cosoleto. Il suo sguardo smise improvvisamente di illuminare il mondo della letteratura italiana una notte d’estate romana di quindici anni fa. Era infatti il 18 luglio 2008 quando Carbone perdeva la vita in un incidente vicino Piazza Albania mentre faceva ritorno verso casa, nel quartiere di Monteverde Vecchio. Carbone – autore capace di affermarsi nel contesto narrativo tardo-novecentesco e, tra le altre cose, insegnante nella sezione femminile del carcere di Rebibbia – era da poco rientrato a Roma dagli Stati Uniti, dove da tempo si recava per tenere conferenze.<p></p><p></p><p style="text-align: justify;"><b>GLI ESORDI</b></p><p style="text-align: justify;">Insieme ai suoi esordi letterari (<i>Agosto</i>, Theoria, 1993; <i>Il comando,</i> Feltrinelli, 1996), Carbone aveva raccolto collaborazioni con le riviste Alfabeta, Linea d’ombra, Nuovi Argomenti, Strumenti Critici, un dottorato a Parigi sullo scrittore Alberto Savinio e una serie di saggi di critica in cui spiccavano lavori su Pascoli e Moravia. La ripubblicazione dei romanzi di Carbone avrà cadenza annuale raccontano dalla Rubbettino ed è ricominciata dalla sua opera numero tre: <i>L’assedio</i>. Dato alle stampe da Feltrinelli nel 1998, <i>L’assedio</i> – altro titolo, come i precedenti, dal sapore ossuto, scheletrico, asciutto – è un’opera dalla potenza profetica e premonitrice che sembra offrirsi oggi come uno specchio dei nostri tempi fra scorie post-pandemiche, incubi nucleari e climatici, futuribili distopie.</p><p style="text-align: justify;"><b>IL CIELO GIALLO</b></p><p style="text-align: justify;">La trama de <i>L’assedio</i> prende il via un indefinito lunedì di marzo dal caldo inconsueto quando il cielo, ormai proiettato verso la primavera, smette di essere «celeste tenue» per divenire «giallo». Dalla sua volta inizia a cadere silenziosamente «una pioggia bianca» composta da «finissimi granelli di sabbia». Tra i primi ad accorgersi di tutto è il personaggio di Saverio Morabito, impiegato da oltre vent’anni all’Ufficio Centrale delle Poste della sua città. Davanti ai suoi occhi il cielo diventa «basso e ostile» e riesce ad alterare «la vista su ogni cosa», conferendo «alla città ancora silenziosa un aspetto nuovo, come di un luogo sul quale, improvvisamente si fosse calata una volontà decisa a mutare il corso degli eventi, a promettere o minacciare una nuova stagione e una nuova prova ai suoi abitanti». Siamo in un luogo imprecisato denominato attraverso una telegrafica e puntata lettera «R.».</p><p style="text-align: justify;"><b>MARE FREDDO</b></p><p style="text-align: justify;">Una «lontana città del meridione» colpita anni prima da un tremendo terremoto, popolata da «alberi tropicali» e bagnata da un «mare inquieto, perennemente attraversato da correnti, freddo anche d’estate». Un contesto urbano che sta per essere circondato da un esercito governativo in attesa di dover intervenire per fronteggiare l’insolita situazione meteorologica. Una condizione che da atmosferica sta per trasformarsi inevitabilmente in esistenziale. Perché quella pioggia che sembra cenere è capace di uccidere e di mettere in crisi una vita comunitaria che si dividerà tra atti di solidarietà e gesti di egoismo. C’è chi si mette in fuga e chi cerca di procurarsi il cibo a tutti i costi, mentre gli ospedali sono presi d’assalto e nelle carceri scoppiano rivolte. La sopravvivenza dell’uomo sembra essere a rischio. E quando Saverio interroga padre Retez su quello che sta accadendo, il suo vecchio amico che ha scelto di indossare l’abito talare gli risponde così: «Credo in Dio, Saverio. Credo nel Dio di tenerezza e di pietà che insegnano le Scritture». Sono queste le linee narrative lungo le quali si snoda la scrittura di Rocco Carbone, autore capace di attraversare la linea di confine che segnava il passaggio dal ventesimo al ventunesimo secolo.</p><p style="text-align: justify;">A firmare la presentazione del volume è Emanuele Trevi, vincitore del premio Strega 2021 con <i>Due Vite</i>, opera dedicata, insieme a quella di Pia Pera, proprio alla parabola biografica di Carbone. Si legge nelle pagine introduttive: «La prosa di Rocco Carbone si è caratterizzata per la sobrietà e la minuta precisione del discorso, in una tensione anti-retorica che allaccia la sua ricerca personale ai grandi modelli del Novecento italiano di Romano Bilenchi e Alberto Moravia, ma anche alla lezione dei maestri giapponesi, soprattutto l’amato Kawabata. Quello che si costruì in tal modo è uno strumento stilistico straordinariamente adeguato a una materia psicologica, per converso, ribollente di ogni forma del montaliano «male di vivere», indagato attraverso conflitti che oppongono drammaticamente il singolo agli ambienti familiari, sociali, storici».</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://ilmanifesto.it/rocco-carbone-futuribili-distopie" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 27 maggio 2023.</a></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://ilmanifesto.it/rocco-carbone-futuribili-distopie" target="_blank"><br /></a></div><a href="https://ilmanifesto.it/rocco-carbone-futuribili-distopie" target="_blank"><br /></a><p></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-66702341540985449192023-03-08T12:09:00.003+01:002023-05-29T16:49:13.575+02:00Così Damiani raccontò la Sicilia di piombo<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjWUTVWshUuvGz6IprkEErZuXN-MZe1SSkntAhdyrKk9xiusjDzbOlNbZSR2j7csk8kkrUzT6W_s3eCNSc-V0rpQ1IKGDgXszJUYWVJj5eAEKdEiYa7X-jZnFZFJukRUxWM_IcG12M0u2QvYCJ4Jn-lo6ey-_9UApjuG-YPnjAekv1KnDJXGykmi-vWSA/s2475/damiani12_pages-to-jpg-0001.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2475" data-original-width="1800" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjWUTVWshUuvGz6IprkEErZuXN-MZe1SSkntAhdyrKk9xiusjDzbOlNbZSR2j7csk8kkrUzT6W_s3eCNSc-V0rpQ1IKGDgXszJUYWVJj5eAEKdEiYa7X-jZnFZFJukRUxWM_IcG12M0u2QvYCJ4Jn-lo6ey-_9UApjuG-YPnjAekv1KnDJXGykmi-vWSA/s320/damiani12_pages-to-jpg-0001.jpg" width="233" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;">Per Pier Paolo Pasolini era «un amaro moralista assettato di vecchia purezza». Per Ennio Flaiano, invece, «il solo dei registi impegnati» da ammirare «sinceramente» per lo «stile “naturale”» e per il «rifuggire da tutte le leziosaggini». Per la storia del nostro cinema, infine, il più americano dei cineasti made in Italy, un autore capace di attraversare più generi dedicandosi poi, tra piccolo e grande schermo, al racconto di quella straordinaria macchina spettacolare e narrativa che è (stata) e sarà la mafia. Questo e mille altre cose è stato Damiano Damiani, il regista, sceneggiatore e pittore friulano scomparso il 7 marzo di dieci anni fa a Roma, all’età di 91 anni, uno dei primi assieme a Francesco Rosi a portare le storie di mafia sullo schermo. Nato a Pasiano di Pordenone nel 1922, Damiani scopre la Sicilia e la lega alla sua carriera grazie alla lettura de <i>Il giorno della civetta</i>, il romanzo più famoso di Leonardo Sciascia pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1961. A invitarlo a immergersi in quelle pagine sono i produttori Ermanno Donati e Luigi Carpentieri, intenzionati a portare sul grande schermo quel capolavoro di letteratura poliziesca, dato alle stampe un anno prima dell’istituzione della “Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia” (20 dicembre 1962). Il film, girato nella Partinico cara a Danilo Dolci, uscirà nelle sale italiane nel 1968. A firmarne la sceneggiatura sono Ugo Pirro e lo stesso Damiani, già avvezzo alla traduzione cinematografica di opere letterarie (<i>L’isola di Arturo</i>, 1962 e <i>La noia</i>, 1963). I protagonisti del film saranno Franco Nero (il capitano dei carabinieri Bellodi), Claudia Cardinale (la vedova di mafia Rosa Nicolosi) e Lee J. Cobb (il capomafia don Mariano Arena). Tre volti che in quegli anni stringono – come lo stesso Damiani, fresco reduce dal politicizzato Quién sabe? (1967) – un legame robusto con il genere western. Intervistato per la Rai nel 1984 da un giovane Giuseppe Tornatore, Damiani dirà: «Io credo che <i>Il giorno della civetta</i> sia stato piuttosto fedele alla sostanza del romanzo, perché già costruito da un punto di vista cinematografico e dei fatti in una forma molto solida Noi abbiamo ampliato il personaggio di Rosa Nicolosi perché emblematico e metaforico e significativo della condizione della donna siciliana». E su questo tema di grande impatto civile e democratico, Damiani porterà ancora la sua attenzione ne <i>La moglie più bella</i> (1970) – esordio cinematografico di Ornella Muti – ispirato al caso di Franca Viola, la giovane donna di Alcamo nata in una famiglia di mezzadri che nel 1965, a soli 18 anni, aveva rifiutato di contrarre matrimonio, denunciandolo, con Filippo Melodia, giovane di famiglia mafiosa che l’aveva rapita. La macchina da presa di Damiani ormai ha il cavalletto ben piantato in Sicilia e nella narrazione delle profonde trasformazioni che il suo corpo sociale vive in quegli impetuosi anni. Arriva così un nuovo mafia-movie: <i>Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica</i> (1971). Un poliziesco che apre le strade al poliziottesco. Una pellicola di forte atmosfera giudiziaria, ambientazione urbana e respiro storico – il richiamo ai sindacalisti uccisi per mano mafiosa lungo tutto il secondo dopoguerra sono lì a dimostrarlo – con il titolo che strizza l’occhio al recente successo di <i>Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto</i> di Elio Petri. Un’opera di grande impegno civile con la giusta dose di spettacolo nello stile tipico di Damiani capace di raccontare la mafia in una prospettiva forte e rinnovata: un’associazione di persone dotata di forti legami sociali che ha lo scopo di impadronirsi, con ogni mezzo, del settore edilizio. L’attore a cui Damiani lega il suo cinema di quegli anni è Franco Nero, che dirigerà ancora in <i>L’istruttoria è chiusa: dimentichi</i> (1972) e <i>Perché si uccide un magistrato?</i> (1975), titoli che affrontano la questione della giustizia, del carcere, della pena mentre la violenza mafiosa cresce, giorno dopo giorno, negli anni di piombo palermitani. Gli anni ’70 siciliani di Damiani si chiudono invece sulle immagini di <i>Un uomo in ginocchio</i>, storia di mafia melodrammatica con Giuliano Gemma protagonista e un ruolo di sicario per Michele Placido, altro attore a cui il regista friulano legherà la sua successiva e importante narrazione di mafia. Pochi anni dopo, Damiani avrà infatti il merito di portare il racconto della mafia sul piccolo schermo della Rai, la Tv di Stato, quando firmerà nel 1984 la regia della prima stagione de <i>La Piovra</i>, sceneggiatura del premio Oscar Ennio De Concini. Lo sceneggiato che diventerà un modello di prodotto Tv da esportazione, muove la narrazione in una indefinita ma riconoscibile Sicilia occidentale e fornirà all’opinione pubblica italiana, attraverso il volto di Michele Placido nelle vesti del commissario Cattani, nuove parole e nuovi simboli per raccontare l’universo mafioso. Come accennato, siamo nel 1984, l’anno dell’arresto in Brasile e della collaborazione con la giustizia di Tommaso Buscetta, due anni prima dell’inizio del Maxiprocesso a Cosa Nostra, straordinario momento della giustizia italiana capace di distruggere il mito della invincibilità mafiosa. Nel bel mezzo di queste date che segnano la storia del Paese, Damiani girerà <i>Pizza Connection</i>, un nuovo mafia-movie che deve il titolo a una inchiesta giudiziaria condotta tra Sicilia e Stati Uniti, in cui Placido è stavolta un killer di mafia di stanza a New York costretto a tornare a Palermo per organizzare un attentato contro uno zelante procuratore della Repubblica. L’attentato immaginato da Damiani sarà messo in scena e realizzato attraverso un bazooka. Una sequenza che diviene traduzione visuale perfetta della Palermo-Beirut di quegli anni e che si trasformerà in fonte storica per studiare e analizzare il clima della città in quei terribili giorni. Se le bombe contro Falcone, Borsellino e le loro scorte sembrano temporalmente lontani, quella contro il giudice Chinnici, saltato in aria nel luglio del 1983 nella strage di Via Pipitone Federico, era invece lì ad interrogare la coscienza democratica del Paese. Con il suo drammatico odore di carne umana ridotta in cenere che Damiani avvertì e raccontò sul grande schermo. Nel suo pieno stile, asciutto e spettacolare.</div><p></p><p style="text-align: justify;"><a href="https://palermo.repubblica.it/societa/2023/03/07/news/damiano_damiani_mafia_sicilia_cinema_anniversario-390805691/" target="_blank">L'articolo è stato pubblicato su La Repubblica-Edizione Palermo il 7 marzo 2023</a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-81942096859638505492023-02-12T22:03:00.007+01:002023-02-12T22:05:56.104+01:00Cinquant’anni di un maestro a Pietralata<p style="text-align: justify;"><br /></p><p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEgaU2IAy0wDTWH9QaSMWdRrtI8bOE5DQKJcymQI6f29uMJ6cBr8L56lGXP_iNQDL7nNxohcyWkGmC4yEKC45Sy7x5cns0x36sjfqeXJypAn8zoRC36sOj-3clv35UCPCXprHz3GR1bE4_9LSvce5NTS6I1UXly-FFg6C9kgFCEHANuSgGVBqZX0uaXRFA" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" data-original-height="658" data-original-width="1170" height="360" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEgaU2IAy0wDTWH9QaSMWdRrtI8bOE5DQKJcymQI6f29uMJ6cBr8L56lGXP_iNQDL7nNxohcyWkGmC4yEKC45Sy7x5cns0x36sjfqeXJypAn8zoRC36sOj-3clv35UCPCXprHz3GR1bE4_9LSvce5NTS6I1UXly-FFg6C9kgFCEHANuSgGVBqZX0uaXRFA=w640-h360" width="640" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;">ROMA - Lungo la Via Tiburtina, in Via del Frantoio e in Via Pomona, sorgono due plessi scolastici che, per motivi differenti ma per causa comune, sono un pezzo di storia di televisione e scuola italiana. A segnare la distanza fisica tra loro, c’è una fermata della linea B della metropolitana, quella che divide S. Maria del Soccorso da Pietralata. Tra il 1971 e il 1972 in questa fetta orientale della città, nell’allora «Istituto statale d’arte per la decorazione e l’arredo della chiesa» fondato dal pittore Enzo Rossi (oggi un liceo artistico che porta il suo nome), il regista Vittorio De Seta (1923-2011) ambienta <i>Diario di un maestro</i>, sceneggiato Rai in quattro puntate trasmesso a partire da domenica 11 febbraio 1973 e «liberamente tratto» dal libro <i>Un anno a Pietralata</i>. A firmare quell’opera biografica è Albino Bernardini (1917-2015), maestro di origini sarde aderente al Movimento di Cooperazione Educativa.</div><p></p><p style="text-align: justify;">Bernardini mette nero su bianco la sua esperienza didattico-democratica di primi anni ‘60 nell’allora scuola «Vittorio Veneto» di Via Pomona, inglobata oggi in un istituto intitolato a Giorgio Perlasca. Il libro viene pubblicato nel 1968 dalla casa editrice La Nuova Italia. Nella prefazione, Gianni Rodari scriverà: «Si intitola <i>Un anno a Pietralata</i>: più volte, però, si sospetta che <i>Un agnello tra i lupi</i> sarebbe stato un titolo più adeguato, tale il contrasto tra il candore del maestro e la violenta malizia dell’ambiente in cui si muove, senza mai arrendersi. Per i suoi colleghi la borgata, i ragazzi, le loro famiglie sono catalogati in blocco in una definizione spregiativa: "Che gentaglia"». A suggerirne la lettura a De Seta nel 1969, è Ugo Pirro. Di scuola, il regista di <i>Banditi a Orgosolo</i>, <i>Un uomo a metà</i> e <i>L’Invitata</i> ne sa poco o niente. Due mesi dopo però, colpito da quelle pagine, firma un accordo con la Rai per tirarne fuori una sceneggiatura. De Seta inizia a leggere don Milani e Freinet. Va a Piàdena da Mario Lodi, autore de <i>Il Paese sbagliato</i>, e gira le scuole d’avanguardia italiane. </p><p style="text-align: justify;">Nei primi mesi del 1970, dà il via a un lavoro di inchiesta sul territorio Sud-Est di Roma. È indeciso su dove «situare» le riprese e il «romanesco» non lo convince. Va nella sede del Pci di Tiburtino III. Fa visita a maestri e insegnanti. Si reca all’Acquedotto Felice, dove don Roberto Sardelli ha fondato la «Scuola 725» e in un altro doposcuola, quello promosso da Giovanni Mazzetti al Borghetto Prenestino. Incontra il maestro Bernardini, in quel momento in servizio a Bagni di Tivoli. Un «inestimabile aiuto» – scrive De Seta nei suoi diari – arriva da Enzo Rossi e decide che sarà il Tiburtino III con le sue «casette dell’epoca fascista, tutte allineate, che sembrano un lager», il contesto dove far vivere l’avventura cinematografica e scolastica di un gruppo di ragazzi di borgata divisi tra l’esigenza di lavorare e il diritto allo studio. Mancano ancora i componenti della troupe, l’attore-maestro e loro, gli studenti. De Seta vuole una «classe difficile» e ragazzi con «personalità», «vivaci e ribelli» e per questo batte per mesi le strade di Tiburtino III, Pietralata e La Torraccia, dove, tra le baracche «ci sta gente di Cassino emigrata dopo la guerra e gruppi di napoletani».</p><p style="text-align: justify;">Scegliere non è facile e i problemi non mancano, su tutti la frequenza scolastica e le autorizzazioni dei familiari. Piano piano, la classe, una quinta elementare, prende forma. A recitare saranno in sedici. Tra loro Remo, Romano e Franco della Torraccia, Sergio Piazza, Massimo Bonini, i fratelli Giancarlo e Sergio Valente. Per la parte del maestro D’Angelo, viene scelto Bruno Cirino (1936-1981), attore napoletano con «la commedia dell’arte nel sangue». A lui De Seta lascia «autonomia d’azione e di linguaggio» nell’affrontare i temi prefissati. Cirino si cala perfettamente in questo sdoppiamento tra finzione e realtà, da non distinguere più se reciti il ruolo dell’insegnante o sia lui stesso un vero e proprio maestro capace di fare scuola davanti la macchina da presa. C’è la necessità di avere anche un consulente pedagogico e viene così ingaggiato Francesco Tonucci, ricercatore del Cnr. Sarà lui a consigliare di inserire nella sceneggiatura temi come «il furto e la delinquenza» o «la casa e il quartiere». L’obiettivo è portare, come nell’opera di Bernardini, la vita nella scuola. La lavorazione del <i>Diario…</i> inizia nell’aprile del 1971. De Seta, come direttore della fotografia, vuole Luciano Tovoli. Con lui ha già lavorato, ma in quel momento è impegnato in un altro film.</p><p style="text-align: center;"><iframe allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture; web-share" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/ql9EcynT37Q" title="YouTube video player" width="560"></iframe></p><p style="text-align: justify;">A distanza di 52 anni, Tovoli ha un ricordo vivido di quei giorni e ci racconta: «Dopo una settimana di riprese, Vittorio mi chiamò disperato, dicendomi che il film non si poteva fare. Gli dissi che l’unica strada era mettere una grande luce al centro dell’aula, utilizzare l’Eclair (una macchina da 16mm molto maneggevole) e far lavorare nell’aula una troupe ridottissima composta da operatore, assistente e dal fonico capace di girare a 360°. Chiesi a Vittorio di rimanere nel corridoio e di fare una prova. Io avrei girato liberamente ciò che volevo. Quando vedemmo il primo materiale, Vittorio si mise a piangere, esclamando: "Ma allora si può fare!". Io gli dissi che si poteva fare solo lavorando con macchina a mano, senza cavalletti e senza ciak. Per questo, e Vittorio lo ha detto, la regia bisognava firmarla in due. In <i>Diario di un maestro</i>, ero sempre pronto, come un falco, a girare qualcosa, ma il mio lavoro è andato al di là della fotografia. A me interessava catturare i volti di questi bambini che cercavano di uscire dal loro destino attraverso la scuola, la loro intelligenza naturale, il loro fiuto "animalesco" nel leggere le situazioni e lo splendore delle loro risposte».</p><p style="text-align: justify;">Le riprese terminano a fine luglio, con un bottino di 36.000 metri di pellicola e 50 ore di materiale. Il montaggio dello sceneggiato inizia nell’agosto del 1971 e termina nell’ottobre del 1972, due mesi dopo la tragica morte dell’alunno-attore Sergio Valente. In quei tredici mesi prende forma anche la definitiva sceneggiatura di un prodotto Tv capace di imporsi come una sperimentale modalità produttiva e una reale e innovativa esperienza scolastico-pedagogica in cui, grazie a De Seta e il suo gruppo di lavoro (le musiche sono di Fiorenzo Carpi), gioco e realtà non hanno confini. Nel corso dei quattro episodi assistiamo alla trasformazione fisica e d’uso dell’aula (dai banchi ai tavoli affinché sia uno spazio di collaborazione), a testimoni che entrano in aula a raccontare le loro esperienze di vita (un ladro, i genitori degli alunni), a creazioni collettive (cartelloni, giornalini, elementi di arredo), a visite del maestro a casa dei suoi alunni, a esplorazioni del territorio circostante e a una gita nel cuore di Roma magistralmente inseguita dalla macchina a mano di Luciano Tovoli.</p><p style="text-align: justify;">Al centro di tutto ci sono gli studenti con i loro bisogni e la loro quotidianità. La messa in onda di <i>Diario di un maestro</i> è un successo di pubblico e il dibattito sulla scuola si rafforza nel Paese. Sono passati oltre dieci anni da quando Albino Bernardini ha messo piede a Pietralata, un territorio di cui non aveva mai sentito parlare. Sapeva soltanto che tra la sua Sardegna e le borgate romane «non c’era tanta differenza nel tenore di vita».</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://ilmanifesto.it/cinquantanni-di-un-maestro-a-pietralata" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias l'11 febbraio 2023.</a></p><p style="text-align: justify;"><br /></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-73347746314571200742023-01-03T00:00:00.012+01:002023-01-31T12:23:11.482+01:00Giancarlo De Cataldo, romanzare la storia<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjmC9--CCmwF8VWM2w7_VvpD4l6FR-JzD3d1jPSy1keWhxAieDrUpLnsNBzlSvAnmvMXu_wrF-ZkfsP5npMoXGCl93p2w-vSNk-LeDBsENBhyLV8DsuE8V2pg-NhVTC7MxwmpAon4lHB-uPPuqchbJXDeJRDCmdCidbEY4jhiDagaBIPVTDnXxntuputA" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" data-original-height="659" data-original-width="1170" height="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjmC9--CCmwF8VWM2w7_VvpD4l6FR-JzD3d1jPSy1keWhxAieDrUpLnsNBzlSvAnmvMXu_wrF-ZkfsP5npMoXGCl93p2w-vSNk-LeDBsENBhyLV8DsuE8V2pg-NhVTC7MxwmpAon4lHB-uPPuqchbJXDeJRDCmdCidbEY4jhiDagaBIPVTDnXxntuputA" width="320" /></a></div><br /><br /><p></p><p style="text-align: justify;">ROMA - «<i>Romanzo criminale</i> è un ragazzo in ottima salute anche se, per la sua età, ha una responsabilità imbarazzante. È ormai diventato un brand. Quante volte lo si evoca per parlare di malaffare e non solo? Detto questo, sono felice che ad ottobre, alla Casa del cinema, sia stato celebrato, non senza imbarazzi. Ho ricevuto una serie di elogi che solitamente si tributano ai defunti. A un certo punto ho dovuto ricordare di essere ancora vivo». </p><p style="text-align: justify;"><i>Romanzo criminale</i>, il romanzo bestseller ispirato alle vicende della Banda della Magliana, ha compiuto vent’anni. E questo compleanno è l’occasione giusta per fare due chiacchiere con il suo autore Giancarlo De Cataldo, magistrato da poco in pensione, prolifica penna da un paio di mesi a questa parte volto Tv Rai per la serie <i>Cronache criminali</i>.</p><p style="text-align: justify;"><b>De Cataldo, come ha conosciuto la Banda della Magliana?</b></p><p style="text-align: justify;">Da magistrato di sorveglianza incontrai un pentito che era stato nella Banda. Per larga parte non fu creduto. Da giudice penale poi, non è che mi andai a cercare il processo. Fu però chiamato a presiedere la Corte d’Assise il giudice Francesco Amato, un uomo di grande esperienza che si era occupato di Br e Nar. Ero il suo giudice a latere. Si trattava di un «processaccio» temuto nell’ambiente giudiziario romano, per pericolosità degli imputati e per mole. La sentenza finale, pronunciata nel luglio del 1996, fu di oltre mille pagine.</p><p style="text-align: justify;"><b>Cosa capì durante il processo?</b></p><p style="text-align: justify;">Via via mi accorsi che quella era una storia che intrecciava un racconto della vita italiana. Una roba che inseguivo da anni. Dopo aver scritto <i>Romanzo criminale</i> ho capito che la mia vocazione era «romanzare» la Storia. Una cosa di stampo ottocentesco.</p><p style="text-align: justify;"><b>Qual è stato il primo personaggio disegnato con la penna?</b></p><p style="text-align: justify;">Ispirato da foto contenute negli atti processuali, scrissi <i>Dandi’s blues</i>, un capitolo che raccontava l’ultimo giorno di vita di questo personaggio. Il racconto uscì firmato nel 1997 da «Anonimo Romano» sulla rivista <i>Lo Straniero</i> di Fofi. A Goffredo piacque e mi invitò, con lungimiranza, a concentrarmi su questa storia. Seguirono quattro anni di scrittura e uno di riscrittura.</p><p style="text-align: justify;"><b>Come andò?</b></p><p style="text-align: justify;">La prima versione oggi potremmo definirla una sorta di <i>Gomorra</i>. La dialettica con lo Stato non c’era. Fu il grande Severino Cesari – fondatore della collana Einaudi Stile Libero – a consigliarmi di aggiungere qualcosa. Severino mi chiese: «Cosa faceva lo Stato mentre questi banditi scorrazzavano per Roma?». Nacque così il personaggio di Scialoja, il commissario che porta l’antagonismo dello Stato ai delinquenti e il manoscritto passò da 350 ad oltre 600 pagine.</p><p style="text-align: justify;"><b>Quali erano i punti di riferimento ideali durante la scrittura di <i>Romanzo criminale</i>?</b></p><p style="text-align: justify;">In <i>Romanzo…</i> cercavo un rovesciamento del punto di vista. Questo rovesciamento era figlio della lezione di Ugo Pirro, premio Oscar per la sceneggiatura di <i>Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto</i>. Con lui avevo fatto scuola di cinema. Pirro raccontava che agli americani faceva impazzire non tanto l’idea che un poliziotto fosse pagato per scoprire dei delitti mentre in realtà ne commetteva uno, quanto l’idea che da colpevole accumulasse indizi contro di sé per essere smascherato. Un doppio paradosso-rovesciamento, insomma. A posteriori, mi sono reso conto che raccontavo una epopea dal punto di vista dei cattivi, ribaltando la tradizione del romanzo poliziesco che ha per protagonista un investigatore. Da James Ellroy, invece, ho preso il racconto dell’accoppiata crimine-politica. Ho così realizzato un affresco storico in cui si intrecciano le stragi di Stato e il caso Moro con le vicende di questa banda reinventata. Questi erano elementi tipici del romanzo di formazione dell’Ottocento. Nel libro cito poi espressamente <i>L’educazione sentimentale</i> di Flaubert.</p><p style="text-align: justify;"><b>In che punto?</b></p><p style="text-align: justify;">In chiusura, quando Scialoja e Patrizia si reincontrano dopo anni. I francesi se ne sono accorti. Con mio grande piacere.</p><p style="text-align: justify;"><b>Libro, film, serie tv. Su «Romanzo criminale» non sono mancate le polemiche sulla rappresentazione del «male». Come ha valutato questo tipo di dibattito?</b></p><p style="text-align: justify;">Quel tipo di questione – né nuova e né originale – mi è stata posta più e più volte. Il male ha degli aspetti seducenti. Friedrich Schiller lo paragonava ad una tigre: un animale pericolosissimo con un meraviglioso mantello. Sul film arrivarono diverse critiche, tra cui quelle de <i>Il manifesto</i>. Ciò che è poi esploso con la serie è stato poter raccontare brandelli di storia attraverso fatti criminali. <i>Romanzo criminale</i> ci ha fatto capire che quel processo era già in atto. Penso alla Bologna di allora con Carlo Lucarelli o Loriano Macchiavelli. Andando indietro nel tempo, penso alla Milano di Scerbanenco o alla Sicilia di Sciascia. <i>Romanzo criminale</i> è quindi originale nel porre la «questione mafia» a Roma. Una rivelazione. Non una scoperta.</p><p style="text-align: justify;"><b>Nei primi anni Duemila, quale immagine c’era nella città di Roma rispetto alla Banda della Magliana? E alla criminalità organizzata più in generale?</b></p><p style="text-align: justify;">A Roma, il fenomeno della Banda – una organizzazione che abbracciava borgatari e figli di impiegati – è stato a lungo negato. Quello è stato un tentativo di impiantare una mafia a Roma in una stagione irripetibile. Tentativi di pari forza non ce ne sono più stati. Questo non vuol dire che nella capitale non siano presenti interessi e gruppi mafiosi.</p><p style="text-align: justify;"><b>Ecco, veniamo all’oggi…</b></p><p style="text-align: justify;">C’è una situazione di estrema frammentazione in cui gli equilibri fra clan – italiani ed etnici – si contrattano per fare soldi in modo criminalmente intelligente. Le mafie continuano ad avere dalla loro la liquidità e la velocità delle transazioni. Per questo sparano di meno. In generale, per capire cosa accade adesso mi concentrerei sul Pnrr.</p><p style="text-align: justify;"><b>Undici anni dopo «Romanzo Criminale» scrive con Carlo Bonini «Suburra». A fine 2014, scatta l’operazione «Mondo di mezzo», mediaticamente conosciuta come «Mafia capitale». Ad agosto 2015, a don Bosco, c’è il funerale-show di Vittorio Casamonica. Se «Romanzo…» guardava al passato, «Suburra» è un racconto in presa diretta, se non anticipatorio, della realtà romana. Come avete lavorato alla stesura?</b></p><p style="text-align: justify;"><i>Suburra</i> mette in scena un livello di efferatezza che in «Mafia capitale» non c’è stato tant’è che l’associazione mafiosa è stata negata proprio su questo aspetto, controverso, del tasso debole di violenza. Al tempo della Magliana ci sono stati tantissimi morti. In quello di <i>Suburra</i> no. Io non ho avuto polemiche su <i>Suburra</i>. Il fascino di un personaggio come il Libanese – in termini di percezione letteraria – è molto più alto di quello di uno Spadino. Ho avuto invece altri due tipi di polemiche.</p><p style="text-align: justify;"><b>Ce le racconti…</b></p><p style="text-align: justify;">Due cose di segno opposto. La prima: aver attinto a delle fonti coperte per raccontare un’inchiesta in corso. La seconda: aver sparato nel mucchio e scatenato un’inchiesta perché dicevamo che a Roma c’era la mafia. Due cose contraddittorie. E false. Si tende a diffidare della capacità autonoma degli scrittori di riflettere sulla realtà reinventandola. </p><p style="text-align: justify;"><b>Nella storia italiana, non sono mancati giudici – penso a Dante Troisi – che si sono misurati con la letteratura «scandalizzando» l’opinione pubblica. Cosa ci dice sul rapporto giustizia-letteratura?</b></p><p style="text-align: justify;">Sulla figura del magistrato grava un’ipoteca di origine religiosa e psicoanalitica. Un magistrato è visto come colui che incarna il «giudizio» e rappresenta in Terra la legge del Padre, concetto che rimanda a Dio. Per questo quando si mescola con l’attività artistico-letteraria la cosa suona strana. Il magistrato è ben accetto quando mette in galera i poveracci e tutela l’onorabilità dei potenti. Se rompe questo schema diventa qualcuno da ostacolare. Ho sempre diffidato del magistrato chino sulle proprie carte indifferente a ciò che c’è oltre la finestra, perché il diritto si forma nella Storia e nell’esperienza. Non solo sulle carte.</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://ilmanifesto.it/giancarlo-de-cataldo-romanzare-la-storia" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 31 dicembre 2022.</a></p><div style="text-align: justify;"><br /></div>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-37177077862139686632022-12-20T14:56:00.010+01:002022-12-20T15:38:24.007+01:00Lionel Messi, the last dance<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEguUt-Q5nTUQiBu-FwPNPUqpNTVCGGxkTX0R6AWNYMMq0Stm0kw67CnZQJ6GzuTDV5oXg8dAowgCreYBzYqDCZJ6dGL4j-fQuhwont_Z6M0oPFZJiZs59QZhOh7C_CdPDGsyCwvJjAbwpP8uClXksu8E3Knzl1bm87OsD4LhXY9vt5F6Altbs1qFP5xdg/s1280/lionel-messi-g8b2ec1415_1280.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="719" data-original-width="1280" height="360" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEguUt-Q5nTUQiBu-FwPNPUqpNTVCGGxkTX0R6AWNYMMq0Stm0kw67CnZQJ6GzuTDV5oXg8dAowgCreYBzYqDCZJ6dGL4j-fQuhwont_Z6M0oPFZJiZs59QZhOh7C_CdPDGsyCwvJjAbwpP8uClXksu8E3Knzl1bm87OsD4LhXY9vt5F6Altbs1qFP5xdg/w640-h360/lionel-messi-g8b2ec1415_1280.jpg" width="640" /></a></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><br /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;">A ventiquattr’ore dalla chiusura di questo politicamente discusso e discutibile mondiale qatarino, da mettere in archivio per i posteri per quanto visto sul campo, vi è senza dubbio il tentativo di “maradonizzazione” di Lionel Messi. Sottolineava questo processo di mutazione della <i>Pulga</i> nata trentacinque anni fa nella città di Rosario anche Emanuela Audisio sulle colonne de <i>La Repubblica</i> l’11 dicembre. Lo faceva commentando, a freddo, la vittoria dell’Argentina ai calci di rigore contro l’Olanda nei quarti di finale. Un Messi così con la sua Argentina – tra coppe americhe e mondiali – non si era infatti mai visto. Non tanto dal punto di vista tecnico-tattico, quanto dal punto di vista caratteriale. Il mondiale del Qatar ci ha regalato una <i>Pulga</i> a tutto campo padrona indiscussa della <i>pelota</i> e un calciatore capace di “maradoneare”, di invitare alla lotta e sfidare l’avversario, caricandosi sulle spalle il peso di una squadra e di una nazione. La partita della svolta, come si diceva, è stata contro l’Olanda di Louis Van Gaal, convulso e frenetico match chiuso ai calci di rigore dal gol decisivo di Lautaro Martínez. È lì, nella rissa scoppiata a fine gara, nell’immagine degli argentini che esultano in faccia agli olandesi sconfitti, che Messi è diventato davvero il padre dei suoi compagni. È lì che l’opinione pubblica argentina e tutto il popolo <i>albiceleste</i> ha deciso di (ri)affidarsi a Leo Messi come figura neo-maradoniana capace di guidare il proprio popolo al successo creandosi dei nemici. Con le dovute differenze, ovviamente.</div><p style="text-align: justify;">I numeri – elementi di cui la narrazione del calcio moderno eccede – fin qui ci hanno sempre raccontato di un atleta capace di battere un record dopo l’altro. Nonostante un’età che inizia a pesare, i cinque mondiali giocati e una bacheca affollatissima, al numero dieci rosarino manca ancora però il trofeo calcistico più prestigioso. Il sogno di chi ama far rotolare una palla su un campo da calcio: la Coppa del mondo.</p><p style="text-align: justify;">È qui che c’è sempre stato lo scarto con la figura di Diego Armando Maradona, il calciatore di stampo peronista e più “politico” della storia del calcio. Questione di carattere certo, ma anche di contesto storico. Maradona è il bambino che incarna il mito dell’infanzia povera che riscatta sé e la sua famiglia attraverso l’arte del <i>fútbol</i>. <i>El pibe de oro</i> muove i primi passi nel calcio professionistico del suo Paese negli anni bui della dittatura dei generali. Non partecipa per ragioni anagrafiche al discusso mondiale del 1978, vinto dagli argentini in casa propria sotto lo sguardo tenebroso di Videla. Scrive una pagina di storia del Novecento il 22 giugno del 1986 segnando due gol – “la mano de Dios” e “il gol de secolo” – contro l’Inghilterra a quattro anni dalla guerra delle Falkland/Malvinas nei quarti di México ’86, dove sarà poi campione del mondo. Diventa il personaggio più odiato nel nostro Paese dopo aver portato il Napoli a storici successi (due scudetti, una Coppa Uefa, una Coppa Italia, una Supercoppa) e soprattutto durante i mondiali di Italia ’90, quando batte in semifinale l’Italia, proprio nella città partenopea, portando una Argentina tecnicamente modesta alla finale di Roma contro la Germania Ovest. È poi il nemico giurato della Fifa ad Usa ’94, quando viene squalificato dopo un test anti-doping.</p><p style="text-align: justify;">Se Maradona è un figlio del ventesimo secolo che chiude la sua vita nel ventunesimo, Lionel Messi è un’icona tipica del mondo globalizzato. In patria, la <i>Pulga</i> non ha praticamente mai giocato. Il racconto della sua biografia ruoterà per sempre intorno ad una adolescenza trascorsa nella Masía, l’accademia giovanile del Barcellona, dove si cercherà di costruire un formidabile calciatore limitando i suoi problemi di crescita. Riempire la sua biografia di elementi socio-politici è impresa destinata a naufragare. Fino ad oggi, su di lui, ha pesato nel confronto con Maradona l’aspetto caratteriale e politico. In una battuta, l’assenza di carisma. In una società <i>futbolera</i> e di miti come quella argentina una mancanza imperdonabile.</p><p style="text-align: justify;">Ma la grande occasione, dopo la finale di Brasile 2014 persa contro la Germania, è finalmente di novo a disposizione di Messi (e compagni). E probabilmente per lui sarà, in un modo o nell’altro, <i>the last dance</i>. L’estremo ostacolo sulla strada della consacrazione è la possente Francia dove brilla la stella di Kylian Mbappé, compagno di Messi nel Paris Saint-Germain, club di proprietà qatarina. L’appuntamento con la storia del calcio è per domani alle ore 16 italiane. Occhi puntati sulla città e lo stadio di Lusail, il disco volante a forma di ciotola per datteri. Per scrivere un nuovo capitolo della biografia di Lionel Messi e salutare il mondiale dello sfruttamento, della negazione dei diritti umani e dello sportwashing. Il primo vissuto dalla morte di Diego Armando Maradona.</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://www.glistatigenerali.com/uncategorized/lionel-messi-the-last-dance/" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su <i>Gli Stati Generali</i> il 17 dicembre 2022</a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-76414471978472866342022-12-11T20:45:00.005+01:002024-03-16T08:02:35.216+01:00Franco Franchi, calcio di poesia<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjKg1DpYNCSYzjIVZzAhhCZMGVn2l-QcTYdUllDsW8oyFTp4aw88wdK7n-NpyXWCeWm7a3HPS8m4cBZRzFmOTqe35BBLH0qa4qk4H5Wj9yAEgYmqek78r_E7DhcwtKMQ2SrHizqtQ-aI-ffVuyR-XAuWK_-M9DIRk1cOzm384HU0uRg-HRv6D_HmdGR6w" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" data-original-height="733" data-original-width="1170" height="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjKg1DpYNCSYzjIVZzAhhCZMGVn2l-QcTYdUllDsW8oyFTp4aw88wdK7n-NpyXWCeWm7a3HPS8m4cBZRzFmOTqe35BBLH0qa4qk4H5Wj9yAEgYmqek78r_E7DhcwtKMQ2SrHizqtQ-aI-ffVuyR-XAuWK_-M9DIRk1cOzm384HU0uRg-HRv6D_HmdGR6w" width="320" /></a></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Per il trentennale della morte di Franco Franchi (9 dicembre 1992) e il centenario della nascita di Ciccio Ingrassia (5 ottobre 1922), Poste italiane ha dato vita a un francobollo speciale. Nel bollettino illustrativo che ne accompagna l’emissione vi è apposta una frase di Federico Fellini: «C’è più Italia in un film di Franco e Ciccio che in tutta la commedia all’italiana».</div></div><p></p><p style="text-align: justify;">Se l’inimitabile coppia <i>made in Palermo</i> è riuscita ad essere specchio dell’Italia della prima Repubblica, per forza di cose si sarà dovuta misurare con la dea Eupalla, la divinità calcistica immaginata da Gianni Brera. Proviamo a vedere come. Nel 1964, ad esempio, quando in una puntata del varietà <i>Cantatutto</i> i due – ospiti fissi del programma – diedero vita ad uno <a href="http://www.teche.rai.it/2013/07/ciccio-ingrassia-e-franco-franchi-in-cantatutto-1964/" target="_blank">sketch «radiofonico» sul Totocalcio</a>. Nel 1982 poi, anno del successo italiano al mondiale spagnolo, quando incidono in un <a href="https://www.youtube.com/watch?v=naKokc1TGuQ" target="_blank">45 giri la sigla del gioco-concorso <i>Calcio matto</i> (Rete 1)</a>.</p><p style="text-align: justify;">Tra i due episodi consumatisi sul piccolo schermo, Franco e Ciccio hanno avuto modo di dire la loro sul calcio anche grazie al cinema. Stavolta dobbiamo riavvolgere il nastro fino al 1970, anno del primo mondiale messicano del Novecento, quello della partita del secolo (Italia-Germania 4-3), l’ultimo targato Jules Rimet e a vedere danzare la stella di Pelé. In Italia, lo scudetto di quella stagione è andato al Cagliari di Gigi Riva detto «Rombo di tuono» e di Manlio Scopigno, il filosofo della panchina. In quei mesi, mentre Alberto Sordi gira <i>Il presidente del Borgorosso Football Club</i> (nel cast anche Omar Sivori, la regia è di Luigi Filippo D’Amico), Franco e Ciccio realizzano un numero incredibile di film. L’ultimo, il numero dieci, si intitola <i>I due maghi del pallone</i>, commedia degli equivoci diretta da Mariano Laurenti che mette in scena le vicissitudini della SCHIAPP, squadraccia di un’industria milanese meridionalizzatasi a Pizzusiccu, immaginario paese del catanese. Il film si offre al pubblico come parodia dell’Italia calcistica di quegli anni, quella di Rivera e Mazzola, del mago Herrera e di Nereo Rocco, <i>el paròn</i>.</p><p style="text-align: center;"><iframe allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/Gv78VB5r8Gk" title="YouTube video player" width="560"></iframe></p><p style="text-align: justify;">Il dibattito sul calcio di allora è ricco e multiforme. Nella carta stampata, a fare da contraltare al citato Brera, re indiscusso dei cronisti/opinionisti, c’è la figura del direttore-manager Gino Palumbo. Anche i grandi scrittori raccontano lo sport più popolare del nostro Paese. Da Luciano Bianciardi a Giovanni Arpino passando per Pier Paolo Pasolini. E proprio Pasolini, nel famoso articolo dedicato alla palla rotonda – quello sulla semiologia del goal e sulle differenze tra il «calcio in prosa» di stile europeo e il «calcio in poesia» di stampo latinoamericano – per descrivere la sua idea di «foot-ball» deve scomodare il Franco Franchi diretto da Laurenti. Scrive Pasolini: «Il sogno di ogni giocatore, condiviso da ogni spettatore, è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai. È un sogno che ho visto realizzato solo ne <i>I Maghi del pallone</i> da Franco Franchi, che, sia pure a livello brado, è riuscito a essere perfettamente onirico» (<i>Il giorno</i>, 3 gennaio 1971). Negli ultimi minuti del film infatti, il Mago KK (questo il nome del personaggio interpretato da Franchi) porta la SCHIAPP al successo segnando il gol decisivo (la partita termina 4-3, siamo nel 1970…) grazie a una serie incredibile di dribbling. </p><p style="text-align: justify;">Fino ad allora, nella storia del calcio giocato di gol del genere non sembrava essercene traccia. Quella descritta da Pasolini e suggerita dalle movenze di Franchi, era poi un’utopia fantasticata e inimmaginabile nell’Italia di un calcio in prosa. Un calcio basato sul catenaccio e su di un «gioco collettivo e organizzato» che vedeva nel contropiede il puro momento poetico. Per vedere realizzato il gol sognato da Pasolini, ci vorrà un nuovo mondiale messicano, il secondo nel giro di sedici anni. </p><p style="text-align: justify;">È il 22 giugno 1986 infatti quando nello stadio Azteca di Città del Messico, Diego Armando Maradona dà anima e corpo alle parole del poeta ucciso nel novembre del 1975. Siamo al decimo minuto della ripresa di Argentina-Inghilterra, match valevole per i quarti di finale. La storia è nota. La gara va oltre i suoi valori sportivi. Sono passati solo quattro anni dalla guerra delle isole Falkland/Malvinas. L’Argentina passa in vantaggio al sesto della ripresa con un gol irregolare segnato dal suo capitano. Gli argentini che ascoltano la partita alla radio sono aggrappati alla voce di Víctor Hugo Morales – elegante signore uruguagio trapiantato sull’altra sponda del Río de la Plata di mestiere <i>locutor</i>, radiocronista – che dalle frequenze di Radio Argentina ammette di aver visto Maradona toccare la <i>pelota</i> con la mano. Quattro minuti dopo però, quando Morales osserva la maglia numero dieci superare la metà campo intuisce che Diego si è ormai lanciato come un aquilone verso la porta inglese e la gloria eterna. Bastano pochi giri di lancetta per passare dalla «mano de Díos» al «gol del secolo». L’Argentina sarà poi campione del mondo. </p><p style="text-align: center;"><iframe allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/1wVho3I0NtU" title="YouTube video player" width="560"></iframe></p><p style="text-align: justify;">Sei anni dopo Maradona gioca in Spagna con la maglia del Siviglia. La sua storia con il Napoli si è conclusa nel 1991 dopo un controllo antidoping. Nel 1992, un Franchi stremato dalla malattia fa le sue ultime apparizioni in Tv insieme a Ciccio Ingrassia per la trasmissione <i>Avanspettacolo</i> (Rai Tre). In estate, durante la lavorazione del programma a Napoli, viene ricoverato all’ospedale San Paolo dove, non appena diffusasi la notizia, accorre una folla numerosa. Il 9 dicembre, a Roma, Franchi abbandona il palcoscenico della vita. Aveva 64 anni. Due giorni dopo, oltre quattromila palermitani attraversano il mercato della Vucciria per raggiungere Casa Professa, quartiere Albergheria, una delle principali chiese barocche della città, costruita nel XVI secolo da padri gesuiti. Tra la folla, dietro robusti occhiali da vista <a href="https://www.youtube.com/watch?v=5aUDN59NTYM" target="_blank">Ciccio prova a nascondere la commozione</a>. È volato via il compagno con cui, per oltre quarant’anni, ha fatto ridere l’Italia intera tra cinema, teatro e Tv. Un amico geniale con cui aveva condiviso anche la magia del pallone. </p><p style="text-align: justify;"><a href="https://ilmanifesto.it/franco-franchi-calcio-di-poesia" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 10 dicembre 2022</a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-77226021885286151222022-11-06T20:50:00.006+01:002022-11-06T20:51:26.853+01:00Leonardo Favio, mito poliedrico<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhh-JIwh9lDeWSdIoYnAB7qW24bB8MTSgYq1c0mPHKsZcGn5UN5VpB9v-Ni7bixdbLIDfW5nF8Mg0Z8EczydnASKPN1BLToHmP7wajNYzcnhu7H9Z3SR7Q16go5Xl5mp3xvbd60iVE7fy3sDDPDwdR3oJcypV-TeQx5aa1A-GXohOEletVO4-aHHNzG-g/s701/1.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="701" data-original-width="526" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhh-JIwh9lDeWSdIoYnAB7qW24bB8MTSgYq1c0mPHKsZcGn5UN5VpB9v-Ni7bixdbLIDfW5nF8Mg0Z8EczydnASKPN1BLToHmP7wajNYzcnhu7H9Z3SR7Q16go5Xl5mp3xvbd60iVE7fy3sDDPDwdR3oJcypV-TeQx5aa1A-GXohOEletVO4-aHHNzG-g/s320/1.jpg" width="240" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;">Buenos Aires, 5 novembre 2012. L’Argentina si prepara a salutare per sempre l’artista Leonardo Favio. Il popolare attore, regista e cantante capace di lasciare un segno nella cultura popolare del Paese e dell’intera America Latina con il suo corpo, il suo sguardo e la sua voce è morto all’età di 74 anni. Da diversi giorni era ricoverato nel Sanatorio Anchorena dopo un peggioramento del suo delicato stato di salute. Fuad Jorge Jury (questo il nome di battesimo) è nato il 28 maggio 1938 a Luján de Cuyo, provincia di Mendoza, sud-ovest del Paese. Poche ore dopo la scomparsa, viene allestita una camera ardente nel Congreso de la Nación. A mezzanotte, con il viso coperto da scuri occhiali da sole, nel Salón de los Pasos Perdidos del Parlamento, arriva Cristina Fernández de Kirchner. La «presidenta de la Nación Argentina» rimane per dieci minuti vicino la bara che custodisce il corpo di Favio. Con lei ci sono alte cariche dello Stato e ministri, funzionari di governo ed esponenti dell’opposizione, deputati, attori, registi e musicisti. Leonardo Favio, militante del Partido Justicialista, viene salutato da un coro che intona la <i>Marcha peronista</i> ed inneggia «Viva la Patria» e «Viva Perón».</div><p></p><p style="text-align: justify;">Alle ore 15 del giorno successivo la salma dell’artista, tra le lacrime e gli applausi di migliaia di uomini e donne, viene inumata nel cimitero della Chacarita, nel tempio della Sadaic, la società argentina degli autori e compositori di musica. A inviare una corona di fiori anche Diego Armando Maradona. In uno speciale della rivista <i><a href="https://carasycaretas.org.ar/2022/10/09/favio-el-boxeo-y-la-pasion-por-maradona/" target="_blank">Caras y Caretas</a></i> dedicato a Favio nel decennale della morte, il giornalista Roberto Parrottino scrive: «Maradona piangeva e dopo ogni caduta si rimetteva in piedi con le canzoni di Favio in sottofondo. Si emozionava con <i>Fuiste mia un verano</i>. Favio era, parola di Diego, un amico a sua insaputa». Quando Maradona – siamo nel 1997, sua ultima stagione con la camiseta azul y oro del Boca Juniors – andrà a vederlo in un concerto al teatro Astros della capitale, Favio, con il numero dieci argentino al suo fianco, racconterà a Crónica TV: «La presenza di Diego mi legittima come autore e cantante. È la cosa più bella che potesse capitarmi nella mia vita. È stata una notte emozionante che non dimenticherò mai».</p><p style="text-align: center;"><iframe allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/IWEimXTqVA8" title="YouTube video player" width="560"></iframe> </p><p style="text-align: justify;">Profondo era il legame di Favio con il mondo dello sport argentino. Nel 1976, anno del colpo di Stato civico-militare e poco prima di prendere la strada dell’esilio, Favio sceglie come attore protagonista per il suo <i>Soñar, soñar</i> Carlos Monzón, il non ancora femminicida pugile campione mondiale dei pesi medi. Diciassette anni più tardi, Favio torna dietro la macchina da presa per il biografico <i>Gatica, el Mono</i> (1993), storia del boxeador José María Gatica, la cui parabola coincide, attraverso uno straordinario effetto specchio, con i momenti più esaltanti e disperati del peronismo. «Non ho mai fatto politica, sono sempre stato peronista» dirà il protagonista della pellicola. Il suo primo lungometraggio invece – il bressoniano <i>Crónica de un niño solo</i> (1964), il protagonista è un malinconico bambino – è considerato una delle migliori opere della storia del cinema argentino per la sua carica etica ed estetica. Quello di Favio è «un cinema profondamente politico per il racconto che fa del potere, dell’infanzia, dei subalterni», ha scritto su <i><a href="https://www.revistaanfibia.com/leonardo-favio-el-creador-del-alma-popular/" target="_blank">Revista Anfibia</a></i> Pablo Alabarces, tra i massimi esperti di cultura popolare del Sudamerica. «Rispetto al cinema di Fernando Solanas, il suo non è un cinema militante che mira a creare una coscienza, che invita a prendere le armi per buttare giù il tiranno e ristabilire la felicità peronista. Per costruire una leggenda, Favio sceglie un infame, le figure oscure di un errante, di un gaucho rissoso, di un assassino, di un alcolizzato, di un disertore».</p><p style="text-align: center;"><iframe allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/11QGbKs-q-c" title="YouTube video player" width="560"></iframe> </p><p style="text-align: justify;">Si narra che a un passo dalla morte Favio raccontasse: «Quando morirò i giornali argentini diranno che <span face="Calibri, "sans-serif"" style="font-size: 11pt; text-align: left;">“</span>è scomparso il famoso regista<span face=""Calibri","sans-serif"" style="font-size: 11pt; line-height: 115%; mso-ansi-language: IT; mso-ascii-theme-font: minor-latin; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-bidi-language: AR-SA; mso-bidi-theme-font: minor-bidi; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin; mso-hansi-theme-font: minor-latin;">”</span>, mentre quelli latinoamericani diranno che è morto l’autore di <i>Ella ya me olvidó</i>». Favio – verdadero romantico, autentico romantico – era infatti un simbolo della canzone melodica dell’America latina. Dopo aver imparato a cantare e suonare la chitarra da bambino, la sua prima incisione – <i>Quiero la libertad</i> – è un fiasco. La già citata <i>Ella ya me olvidó</i> – parte del suo album di esordio <i>Fuiste mía un verano</i> (1968) – venderà milioni di copie con picchi di 45mila dischi al giorno. L’anno successivo, al festival di Viña del Mar (Cile), Favio inizia a trasformasi in un fenomeno internazionale. Sono gli anni che in Argentina si affermano i cantanti Sandro, Leo Dan e Palito Ortega. Ma le canzoni di Favio godono di una vena esistenzialista e viene paragonato ad Aznavour. Lo scrittore Juan José Becerra ha detto che Favio appartiene «agli uomini che non possono piangere». Grazie alla musica comunque, nel 1971, Favio riesce ad incontrare, durante un tour in Spagna, l’amato generale Perón. Da quel momento la sua militanza peronista si lega alla sua opera di cantante e cineasta.</p><p style="text-align: justify;">Nel 1999, Favio realizza <i><a href="https://www.youtube.com/watch?v=XTlQ_fAUA_8&list=PLmTRFIsHqNzVzIIItBO95mGsK5VJRcypa" target="_blank">Perón, sinfonía del sentimiento</a></i>, monumentale doc in quattro episodi (346 minuti in totale) che narra il movimento peronista concentrandosi sulla figura di Juan Domingo. <a href="https://www.youtube.com/watch?v=iTcFI3StvMs" target="_blank">Ma l’episodio che salda la biografia di Favio a quella di Perón si consuma il 20 giugno 1973 nei pressi dell’aeroporto di Ezeiza</a>. Quel giorno il generale deve tornare in Argentina dopo anni di esilio spagnolo. Una folla sterminata è lì per dagli il benvenuto. La voce di Favio risuona dagli altoparlanti. È la voce ufficiale della giornata. Alle 14:35 arriva l’eco delle mitragliatrici. Il ritorno del generale è un giorno di morte. «Chiedo ai peronisti di non usare le armi», esclama Favio. A terra restano tredici vittime e numerosi feriti. L’Argentina è nel baratro della violenza. Le contraddizioni interne del peronismo sono esplose con virulenza. Perón muore un anno dopo, il 1° luglio 1974 ad Olivos. Il 24 marzo 1976 Jorge Rafaele Videla è a capo del Paese. Inizia una cruenta dittatura celata sotto il nome di «Processo di riorganizzazione nazionale».</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://ilmanifesto.it/leonardo-favio-mito-poliedrico" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 6 novembre 2022.</a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-61243284307141755712022-10-21T19:46:00.002+02:002022-10-21T19:46:22.346+02:00Romanzo popolare, le nuove puntate<p> <a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjDwoQpqaRes3bZoFPE2gfoTtbwm3nXRsF0xT8QEqIHEXqyl6H6Fj63F3SguPrRhA4j-_pf9z3s1C-2YxRnlCVsNAVjbadCBr3kMYq0Oh3D1AeJ_7yWCmfki9p0htCZ2PNPB9C2Dznezpxw62zdyn24dL1ksQ-laFccCWx2pqMAoquf1x1M5a6ics9qMA/s843/275899500_4861275427312915_7100019347626890264_n.png" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="843" data-original-width="843" height="330" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjDwoQpqaRes3bZoFPE2gfoTtbwm3nXRsF0xT8QEqIHEXqyl6H6Fj63F3SguPrRhA4j-_pf9z3s1C-2YxRnlCVsNAVjbadCBr3kMYq0Oh3D1AeJ_7yWCmfki9p0htCZ2PNPB9C2Dznezpxw62zdyn24dL1ksQ-laFccCWx2pqMAoquf1x1M5a6ics9qMA/w330-h330/275899500_4861275427312915_7100019347626890264_n.png" width="330" /></a></p><p>Romanzo Popolare è un podcast realizzato con la regia di Stefano Campetta, prodotto dall'associazione <a href="http://www.dasud.it" target="_blank">daSud</a> e da <a href="http://www.apaccademia.it" target="_blank">ÁP - Accademia Popolare dell'antimafia e dei diritti</a>.</p><p>Uno spazio sonoro in cui raccontare e provare a guardare, attraverso le lenti dell'immaginazione, storie, piccole e grandi, che hanno segnato la nostra epoca contemporanea.</p><p>Sono disponibili le nuove sei puntate:</p><p>- 1922. La marcia su Roma </p><p>- 1922. Nasce Pier Paolo Pasolini, il poeta scrittore di musica</p><p>- 1962. Nasce Diabolik, terrore in edicola</p><p>- 1972. Milano Calibro 9, il terrore corre sullo schermo</p><p>- 1992. Addio a Franco Franchi, il comico che dava del tu alla fame</p><p>- 2002. L'anno di Romanzo criminale</p><p>Buon ascolto su <a href="https://open.spotify.com/show/6jP7TSU5fcSjXCZSZdD8jm?fbclid=IwAR0rTGbHI0jNjLBmByjPkUG6h8XG9ao-54lwJ5iUeOTMn3ojKxkpilc7OqA" target="_blank">Spotify</a> e/o <a href="https://www.spreaker.com/show/romanzo-popolare" target="_blank">Spreaker</a>!</p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-29747898772453372222022-10-16T10:43:00.008+02:002022-11-06T20:51:56.435+01:00Memoriale di una fabbrica<div style="text-align: justify;"><b><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh5ecMULLJfRDqc0hiVX_yw7E1k4-6VUwXSGwFCyaIlBPPZcKE8_iOhJawmsGi5yO7w7RB-yBG-z2268zB6kPSt66bUv6DerT65soBf6AxagqgOUthAF-vcrnu64dvhmlMqdFA-p7fb0CohhpDLifxbYat9l7BYW1JbE0yAqCxWXSfGVl47thgWVA0UIA/s661/WhatsApp%20Image%202022-10-15%20at%2000.27.36.jpeg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="661" data-original-width="443" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh5ecMULLJfRDqc0hiVX_yw7E1k4-6VUwXSGwFCyaIlBPPZcKE8_iOhJawmsGi5yO7w7RB-yBG-z2268zB6kPSt66bUv6DerT65soBf6AxagqgOUthAF-vcrnu64dvhmlMqdFA-p7fb0CohhpDLifxbYat9l7BYW1JbE0yAqCxWXSfGVl47thgWVA0UIA/s320/WhatsApp%20Image%202022-10-15%20at%2000.27.36.jpeg" width="214" /></a></div><br />AL CROCEVIA DI CASSINO</b></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Cassino, Piedimonte San Germano – Per osservare e tentare di capire cosa abbia voluto e cosa voglia dire ancora la presenza del sito industriale oggi Stellantis di Cassino-Piedimonte San Germano nel territorio del basso Lazio, sono disponibili un paio di opzioni che bisogna provare a tenere insieme. La prima invita a costeggiare l’infinito perimetro dello stabilimento – i cancelli di ingresso e uscita dei lavoratori e delle lavoratrici, i capannoni, la centrale termica, il centro sportivo divenuto hub vaccinale Covid-19 in tempo di pandemia, lo snodo ferroviario che comunica con l’impianto per movimentare merci e vetture – provando a immaginare cosa ci fosse lì prima che la Fiat si “meridionalizzasse”. L’alternativa, più suggestiva e seducente, è invece scegliere di guardare il tutto dall’alto, inerpicandosi lungo gli oltre 500 metri di altitudine dall’Abbazia di Montecassino, dalla cui Loggia del Paradiso si può scattare una foto forse capace di tenere insieme il senso della storia di questo territorio di confine tra il centro e il Sud dell’Italia. È qui che il futuro patrono d’Europa Benedetto da Norcia, nel 529 d.C., costruisce la prima chiesa di Montecassino e conia il motto <i>ora et labora</i>, prega e lavora.</div><div><br /></div><div><b>Bombe atlantiche</b></div><div><b><br /></b></div><div style="text-align: justify;">È in questo pezzo d’Italia che nel febbraio 1944, si consuma uno dei momenti più drammatici della Seconda guerra mondiale, lo sfarinamento da parte degli anglomericani, bloccati dai nazisti lungo la linea Gustav, della secolare abbazia benedettina e della città di Cassino a suon di bombardamenti aerei. È tenendo insieme questi due punti di osservazione che si diradano le polveri della distruzione e si riesce a cogliere il significato di quanto accaduto il 16 ottobre 1972 allo stabilimento Fiat di Cassino. È un lunedì d’autunno quando dalla sua catena di montaggio esce la prima autovettura prodotta nel più grande insediamento industriale della casa torinese nel Mezzogiorno. A venire alla luce è una Fiat 126 di colore rosso, una nuova utilitaria a due porte che coniuga le caratteristiche delle auto simbolo del boom economico italiano. La 126 ha un motore posteriore come la 600 e si configura come un incontro tra la linea della 127 e le caratteristiche tecniche della già storica e iconica 500. Come raccontato in un cinegiornale Fiat, la 126 ha quattro posti, due cilindri raffreddati ad aria, ventitré cavalli, quattro marce. È un’auto che supera i cento chilometri orari «quanto occorre per una buona accelerazione nel traffico urbano e una buona velocità di crociera sulle autostrade» e «risponde alle norme europee antinquinamento». Le prime prove di produzione sono iniziate nel mese di luglio. I lavori per la nascita dello stabilimento hanno invece preso il via il 15 settembre 1970, dopo che il 22 gennaio di quell’anno, Paolo Emilio Taviani, ministro della Cassa per il Mezzogiorno, ha firmato il decreto che stabilisce il sorgere della Fiat nell’entroterra meridionale del Lazio, sfera di influenza di Giulio Andreotti. Il 15 marzo 1971 si iniziano a intravedere le strutture dei primi capannoni. Il 23 settembre 1972 la produzione si avvia ufficialmente su un’area di due milioni di metri quadri scaturiti da settanta miliardi di lire di investimenti. </div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Metalmezzadri</b></div><div style="text-align: justify;"><b><br /></b></div><div style="text-align: justify;">Gli operai assunti sono perlopiù contadini, operai edili, artigiani. Provengono dal cassinate, dalle sue aree limitrofe e da fuori regione. Hanno in media 25-30 anni. Li chiameranno metalmezzadri, operai da un lato e per sempre contadini dall’altro. In molti sono poi coloro che hanno già conosciuto la grande fabbrica fordista.</div><div><br /></div><div style="text-align: justify;">Sono andati anni prima a Torino lasciando Sardegna, Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, Molise ed adesso vedono, nell’apertura di uno stabilimento nell’area centro-Sud del Paese, un’occasione per portare la loro esperienza, chiudere con la metropoli industrializzata, trasferirsi in un contesto di provincia, vivere in una casa indipendente, coltivare un pezzo di terra utile all’economia familiare e riavvicinarsi ai paesi di origine. Sono gli emigranti di ritorno. Siamo tre anni dopo lo scoppio dell’autunno caldo e pochi mesi dopo la nascita dello Statuto dei lavoratori quando nel basso Lazio inizia a prendere definitivamente forma un pezzo di storia dell’industria automobilistica italiana. Mentre Torino fatica a gestire la sua trasformazione in gigantesca <i>fiatopoli</i> e Mirafiori – in termini di risorse umane la più grande fabbrica del meridione – è ormai un catino ribollente di rabbia e lotta operaia, i vertici Fiat decidono di delocalizzare verso Sud la produzione. L’obiettivo, favorito dai copiosi finanziamenti, è il decongestionamento produttivo e occupazionale. Per conseguirlo, non dovranno essere gli operai a cercare la fabbrica. Sarà la fabbrica che andrà a cercarli. Laggiù dove sono nati. I comuni del cassinate vedono così crescere nel giro di pochi anni la propria popolazione. <span style="text-align: left;">Più 36% per Piedimonte San Germano, più 38% per Aquino, più 18% per Cassino. Anche nel basso Lazio però, l’industria metalmeccanica, moderna e imponente, insieme alla crescita economica e alle opportunità del cosiddetto indotto, impone fatica, sudore e rapporti di lavoro gerarchizzati, dettando nuovi ritmi di vita ad un territorio da sempre a vocazione agricola. «All’epoca molti si chiesero cosa avesse spinto la Fiat a scegliere Cassino-Piedimonte San Germano per installare la sua fabbrica. Il primo elemento fu l’ampia disponibilità di manodopera e le infrastrutture già esistenti: l’autostrada del Sole, la strada statale Casilina, la bretella dell’autostrada del Sole dal casello di Cassino, la ferrovia Roma-Napoli; la linea ferroviaria Cassino-Villa Santa Lucia-Piedimonte, infine l’esistenza di un nucleo industriale Cassino-Pontecorvo», racconta Francesco Di Giorgio, segretario della Camera del Lavoro di Cassino e membro del Comitato centrale Fiom-Cgil (1974-1980) ed autore del volume <i>Dalla Fiat a Stellantis. 50 annni di evoluzione economica del Lazio Meridionale 1972-2022</i> (Centro documentazione e studi cassinati, pp. 314). </span></div><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;"><b>L'espansione</b></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="text-align: left;">Ma la conflittualità non mancherà neanche nello stabilimento di Cassino, la Mirafiori del Sud che nel corso della sua storia arriverà a contare oltre 10.000 addetti contemporaneamente (oggi ridotti a 3.000 unità). «Cassino fu crocevia di gruppi terroristici ben organizzati e strutturati, ma anche area di contestazione radicale», ricorda ancora Di Giorgio. A partire dal 1976, una serie di incendi dolosi, esplosioni, aggressioni, gambizzazioni e attentati dinamitardi segnano la vita della grande fabbrica di provincia. Saranno il preludio all’uccisione di Carmine De Rosa, capo dei servizi di sorveglianza della Fiat di Cassino, avvenuta il 4 gennaio del 1978. L’omicidio viene prima rivendicato con una telefonata al quotidiano <i>Il Messaggero</i>. Successivamente, a Roma, verrà ritrovato un volantino firmato dalla sigla Lotta armata per il comunismo. Con l’omicidio De Rosa si chiude la prima fase di vita della Fiat di Cassino. Sempre in quel 1978, per saldare le lamiere della Ritmo, nella fabbrica ai piedi dell’abbazia benedettina verrà installato il primo Robogate. Sarà una rivoluzione tecnologica. Due anni dopo, nel 1980, la marcia dei 40.000 quadri Fiat tra le strade di Torino sancirà la morte dell’operaio. La grande fabbrica cambierà ancora.</span></div><div><br /></div><div>***</div><div><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>DAL PRIMO ALL'ULTIMO GIORNO CON PASSIONE. INTERVISTA AL SINDACALISTA FIOM VINCENZO ANTENUCCI</b></div><div style="text-align: justify;"><b> </b></div><div style="text-align: justify;">Vincenzo Antenucci è un sindacalista in pensione. Vive a Sant’Elia Fiumerapido, una manciata di chilometri da Cassino. È nato nel 1946 a Vastogirardi, paesino di montagna dell’Alto Molise. Ha lavorato in Fiat dal 1969 al 2003. Prima a Torino, poi a Piedimonte San Germano dove ha scritto importanti pagine di storia sindacale.</div><div><br /></div><div><b>Cosa ricorda del primo giorno in Fiat?</b></div><div style="text-align: justify;">Sono entrato in Fiat il 31 marzo 1969, dopo il servizio militare. Un amico mi disse che a Torino c’erano buone possibilità di essere assunto. Inoltrai la domanda nel dicembre del ’68. Qualche mese dopo entrai alla Iveco di Torino con mansione di collaudatore di banco. Fu il mio primo lavoro in assoluto. Quel giorno mi venne a prendere un caporeparto. Mi spiegò il lavoro da fare e mi affiancò ad un altro dipendente per una settimana.</div><div><br /></div><div><b>Quale fu l’impatto con Torino città?</b></div><div style="text-align: justify;">Non vorrei esagerare, ma fu traumatico. In quel periodo le assunzioni in Fiat furono massicce. Gli alloggi scarseggiavano. Trovai una pensione in zona stazione di Porta Nuova. Il proprietario mi disse che non potevo rimanere per più di una settimana. Rimasi senza un tetto. Per fortuna c’erano le vacanze pasquali e andai da mia sorella a Roma. Al ritorno, trovai un’altra pensione. Cambiai diversi alloggi nei miei sette anni torinesi.</div><div><br /></div><div><b>Quando entrò in contatto con il sindacato?</b></div><div style="text-align: justify;">Iniziai a frequentare la sede del sindacato unitario. Fui solo un attivista della Flm, la Federazione lavoratori metalmeccanici che abbracciava Fiom, Fim e Uilm. Quando arrivai a Cassino invece – era il 1975 – fui eletto delegato di squadra. Da quel momento in poi, fino alla pensione, sono stato rappresentante Fiom.</div><div><br /></div><div><b>Perché ha deciso di tornare verso Sud?</b></div><div style="text-align: justify;">Ognuno di noi sogna di ritornare al suo paese di origine. Nel mio caso, almeno provai ad avvicinarmi.</div><div><br /></div><div><b>Cosa ricorda del primo giorno di lavoro a Cassino?</b></div><div style="text-align: justify;">Venivo da una realtà diversa e gli inizi non furono dei migliori. Fui messo al reparto lastroferratura, dove facevamo le saldature della 126. Lì c’erano fumi e polveri. Oltre alla fatica del lavoro, si respirava male. Poi passai alla catena di montaggio. Anche lì la fatica era tanta. Per fortuna però, l’ambiente era più pulito. Per migliorare le condizioni di lavoro abbiamo fatto lotte immense.</div><div><br /></div><div><b>Che differenze e che analogie c’erano tra Torino e Cassino?</b></div><div style="text-align: justify;">Per le lotte sindacali, Torino è stata sempre una città all’avanguardia. Lì c’erano i sindacati strutturati, con grande organizzazione ed esperienza. A Cassino, in uno stabilimento nuovo, non fu facile iniziare questo tipo di attività. I contratti e gli accordi non si conoscevano. Per via di questa impreparazione, l’azienda tendeva a fare il bello e il cattivo tempo… Mano a mano abbiamo iniziato a costruire il sindacato, capendo anche i tempi di lavoro e di pause. C’era chi prendeva quaranta minuti di pausa e chi non. La stessa gerarchia, i capi per capirci, non aveva del tutto chiara la situazione lavorativa. I rappresentanti sindacali torinesi non ci hanno mai abbandonati. Venivano spesso a Cassino per riunirsi. Ci raccontavano come andavano le cose su e come dovevano andare a Cassino e in tutti gli stabilimenti del Sud nati in quegli anni. Un’altra cosa da non dimenticare è che Cassino era uno stabilimento di carrozzeria, di assemblaggio, quindi molto complesso sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro. Gli accordi strappati da noi erano all’avanguardia.</div><div><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>Può dirci qualcosa degli episodi di lotta armata che si verificarono? E quali, secondo lei, le cause della radicalizzazione dello scontro all’interno della fabbrica?</b></div><div style="text-align: justify;">L’omicidio di Carmine De Rosa nel gennaio del ’78 fu un evento tragico, ci colse di sorpresa. La reazione del sindacato fu forte e unitaria. Il consiglio di fabbrica di quelle ore fu drammatico. La cosa ci segnò profondamente. Siamo stati però in grado, anche grazie al Pci locale, di arginare questa deriva di violenza e rimanere nei canoni della lotta democratica all’interno della fabbrica. Le condizioni di lavoro erano dure. Questo non va dimenticato. Uno dei problemi fu sicuramente il carattere spontaneo di alcune lotte all’interno di uno stabilimento giovane.</div><div><br /></div><div><b>Quando sono entrate le prime donne all’interno della Fiat di Cassino?</b></div><div style="text-align: justify;">Tra il ’77 e il ’78, la Fiat doveva assumere circa 2000 operai. All’ufficio di collocamento di Piedimonte San Germano, nella lista di persone in cerca di lavoro c’erano molte donne. La Fiat però aveva delle forti riserve su assumere manodopera femminile perché, a suo giudizio, non era adeguata alla catena di montaggio. La situazione si sbloccò solo dopo che occupammo l’ufficio di collocamento. In alcune situazioni, le donne hanno dimostrato di lavorare meglio degli uomini. Per esempio, nei lavori di minuteria o in quelli di selleria.</div><div><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>A un certo punto, Cassino subì anche una profonda trasformazione tecnologica…</b></div><div style="text-align: justify;">Iniziò nel 1978 per la produzione della Ritmo con l’introduzione dei primi robot teleguidati. Si partì dalla lastratura, dove avveniva l’assemblaggio delle scocche. Poi si passò alla verniciatura, dove, all’interno di cabine, erano gli operai gli addetti allo spruzzo della vernice. Alcuni tipi di lavoro vennero senza dubbio migliorati.</div><div><br /></div><div><b>In una battuta, chi è il metalmezzadro?</b></div><div style="text-align: justify;">Il metalmezzadro è colui che ha lasciato l’agricoltura ed è andato a lavorare in fabbrica. Questa zona era piena di persone che anche dopo l’assunzione nella grande industria non ha mai smesso di fare lavori agricoli.</div><div><br /></div><div><b>Quando è andato in pensione che fabbrica ha lasciato?</b></div><div>Una Fiat in cui il sindacato riusciva ad avere buoni rapporti in favore dei lavoratori.</div><div><br /></div><div><b>In chiusura, cosa hanno rappresentato per lei la Fiat e il sindacato?</b></div><div style="text-align: justify;">La Fiat è stata l’opportunità di lavorare e farmi una famiglia. Il sindacato mi ha permesso di migliorare la qualità della mia vita e quella dei lavoratori. Mi ha insegnato cose che prima non riuscivo a comprendere, conducendomi verso l’emancipazione. È stato una scuola di democrazia.</div><div><br /></div><div><div><b>LE AUTO PRODOTTE NELLO STABILIMENTO DI CASSINO</b></div><div><br /></div><div style="text-align: justify;">Nel 1972 inizia la produzione della 126. Nel 1974 a Cassino viene prodotta la 131. Sarebbero poi arrivate la Ritmo (1978), la Regata (1983), la Tipo (1987), la Tempra (1988), la Bravo e la Brava (1995), la Marea (1999), la Stilo (2001), la Croma (2005), la nuova Bravo (2007), la nuova Lancia Delta (2008), le Alfa Romeo Giulietta (2010), Giulia (2016) e Stelvio (2016), la Maserati Suv Grecale (2022).</div></div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;"><b>*L'articolo e l'intervista sono stati pubblicati su <i>Il Manifesto-Alias </i>il 15 ottobre 2022.</b></div>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-67041287561645569352022-09-23T09:58:00.004+02:002022-11-06T20:52:13.195+01:00Perché leggere “L’Orologio” di Levi risolve i nostri dubbi su chi votare alle elezioni imminenti<p style="text-align: justify;">“La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case”. Queste parole rappresentano uno dei più importanti incipit nella storia contemporanea della letteratura italiana. Le scrisse Carlo Levi – medico, pittore, intellettuale antifascista nato a Torino nel 1902 – per descrivere la Roma malata negli immediati giorni del dopoguerra. Finzione e realtà si mescolavano per restituire il clima politico di una crisi di governo, quella dell’esecutivo presieduto da Ferruccio Parri, il primo formatosi in Italia dopo il 25 aprile del 1945.</p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXDzeSndBjdiMe6wVdLgOsNPfpVyxoKO4BVmSnpTfRrA4Ys-GvlMkEg9Gz97ZMWT37nnkytDfmtrhI_-CMxU9wXEDII7D2h4Pr1CjGUCo744c7PlTjtKgB4bH_xMaLb-8D4awilZZyYwJxo_LV0pxElAkntQcJw_VGatXxV2DfEBlsDOrEzuMOxS4xKw/s2461/Lorologio.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2461" data-original-width="1737" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXDzeSndBjdiMe6wVdLgOsNPfpVyxoKO4BVmSnpTfRrA4Ys-GvlMkEg9Gz97ZMWT37nnkytDfmtrhI_-CMxU9wXEDII7D2h4Pr1CjGUCo744c7PlTjtKgB4bH_xMaLb-8D4awilZZyYwJxo_LV0pxElAkntQcJw_VGatXxV2DfEBlsDOrEzuMOxS4xKw/s320/Lorologio.jpg" width="226" /></a></div><p style="text-align: justify;">Su questa immagine enfatica della città eterna Levi andò poi a costruire tutta la narrazione de <i>L’Orologio</i>, la sua seconda opera dopo il famoso <i>Cristo si è fermato a Eboli</i>, del 1945. Pubblicato per la prima volta nel 1950 da Einaudi, <i>L’Orologio</i> è un libro che permette ai lettori e alle lettrici di oggi e di domani di entrare in contatto attraverso la narrativa con le dinamiche legate alla ricostruzione di un Paese in ginocchio. L’<i>incipit</i> di Levi potrebbe infatti descrivere in maniera ancora efficace l’attuale atmosfera sociale e politica della capitale e forse dell’Italia intera.</p><p style="text-align: justify;">L’opera rappresenta un’atipica e formidabile forma di romanzo-saggio che racconta gli ultimi giorni del cosiddetto “governo della Resistenza”. Un esecutivo formato da Democrazia cristiana, Partito comunista, Partito socialista, Partito d’Azione (l’organizzazione in cui Levi militava), Partito liberale e Partito democratico del lavoro – che, una volta capitolato, avrebbe lasciato spazio a un lungo, rigido ed egemone centrismo democristiano rafforzato geo-politicamente dalle dinamiche della guerra fredda. In una prospettiva strettamente politica, come ricordava lo scrittore Alessandro Leogrande su <i>Lo Straniero</i> nel novembre del 2013, “il governo cadde con il beneplacito degli stessi De Gasperi e Togliatti”, segretari della Dc e del Pci con incarichi, rispettivamente, di ministro degli Esteri e ministro della Giustizia. Decisiva, quindi, fu la “questione dell’epurazione della macchina dello Stato, del Palazzo, da coloro i quali erano stati collusi con il regime fascista”. “Il Partito d’Azione”, concludeva Leogrande, “avrebbe voluto un’epurazione non punitiva o moralistica, ma che segnasse una cesura netta con il ventennio, e che non fosse rivolta solo al ceto politico […], ma anche alle università, i giornali, la radio, l’economia, le banche, i ministeri, le vere oligarchie che avrebbero voluto continuare a guidare il paese”.</p><p style="text-align: justify;">Nelle pagine del romanzo impariamo a conoscere poi la classe politica che ha partecipato alla Resistenza e alla ricostruzione repubblicana. I personaggi che lo animano, seppur battezzati su carta con nomi di fantasia, sono corporei e concreti nella loro dimensione biografico-politica e per questo riconoscibili. Insieme al “Presidente” che è Ferruccio Parri, al centro della scena ci sono i dirigenti azionisti: “Carmine” è Manlio Rossi-Doria, “Roselli” e “Fede” sono Altiero Spinelli e Vittorio Foa, “Andrea” – che in alcuni momenti porta avanti la visione dell’autore – è Leo Valiani. E da questo elemento emerge l’altra caratteristica del romanzo. Le sue pagine rappresentano infatti in chiave letteraria un’originale forma di racconto del Partito d’Azione, perché provano a interpretare la sua breve ma intensa parabola politica, un’esperienza frutto dell’incontro del movimento di Giustizia e libertà con forze di orientamento liberalsocialista e repubblicano. Nascendo nel 1942 per spegnersi poi nel 1947, la vita del partito coinciderà sostanzialmente con il vento della Resistenza che soffiava nel Paese, scontando probabilmente l’incapacità di far presa sui cosiddetti ceti medi nel cuore del Novecento, il secolo delle masse. Ma la sua grande ricchezza ideale e progettuale – che nella guerra di Liberazione avrebbe toccato il suo momento più alto grazie ai suoi dirigenti: raffinati intellettuali e coraggiosi combattenti a un tempo – avrà la forza di diventare patrimonio della cultura politica italiana per gran parte del Ventesimo secolo.</p><p style="text-align: justify;">In questo testo si riscopre un Levi diverso e meno conosciuto da quello di <i>Cristo si è fermato a Eboli</i>, un intellettuale politico che, dopo essersi misurato con la repressione fascista, da giornalista e militante – in quei giorni dirigeva peraltro <i>L’Italia Libera</i>, quotidiano del Partito d’Azione – aguzza il suo sguardo “urbano” per leggere in presa diretta le dinamiche sociali e politiche dell’immediato secondo dopoguerra, prima della nascita della Repubblica e dell’entrata in vigore della Costituzione. Se <i>Cristo si è fermato a Eboli</i> era ambientato nel contesto meridionale di un’Italia misteriosa e straniera (nel quadro politico del regime totalitario di Mussolini e nell’esperienza da confinato ostile al fascismo che forgerà il Levi scrittore e meridionalista), con <i>L’Orologio</i> siamo infatti nella Roma del 1945, in quel contesto raccontato magistralmente dal cinema neorealista. La capitale era il cuore di un’Italia che desiderava un riscatto morale dopo le tragedie della guerra e rappresentava il centro di una comunità immaginata che cercava il proprio futuro mentre la vita ricominciava poco a poco. Come sottolineato da Goffredo Fofi, <i>L’Orologio</i> è “un libro del dopoguerra”, “un libro di rinascita e di speranza” in cui “viene fuori anche tutta la tristezza e la cupezza di una visione barocca dell’Italia, un’Italia in cui si ha più il senso della continuità Risorgimento-fascismo-democrazia, che non quello della discontinuità, del fascismo come parentesi”.</p><p style="text-align: justify;">La metafora su cui – in continuità con quanto espresso in <i>Cristo si è fermato a Eboli</i> – fa perno la riflessione politica del romanzo è quella di un Paese incrinato e sospeso dalla divisione fra “contadini” e “luigini”. Una visione del mondo italiano che riesce ad avere una sua paradossale attualità ancora oggi, alla luce della liquefazione dei partiti di massa, dell’abbandono della lotta di classe, delle crescenti disuguaglianze economico-sociali e, soprattutto, dell’incapacità delle classi cosiddette dirigenti di farsi carico della rappresentanza del mondo del lavoro e delle classi subalterne. Se “contadini” – ispirati dalla figura del poeta-politico lucano Rocco Scotellaro – sono infatti “tutti quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano”, dice Andrea, i “luigini” – dal personaggio di don Luigi, podestà fascista descritto nel <i>Cristo si è fermato a Eboli</i> – finiscono per essere “gli altri”, “la grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia”.</p><p style="text-align: justify;">E se i “luigini hanno il numero, hanno lo Stato, la Chiesa, i Partiti, il linguaggio politico, l’esercito, la Giustizia e le parole”, ai contadini non spetta “niente di tutto questo”, con il dramma ulteriore di non sapere “neppure di esistere”. Un problema di rappresentanza, insomma, e di visione del futuro, fra chi crede in un benessere diffuso e chi sostiene politiche conservatrici e autoritarie; tra chi auspica inclusione e allargamento dei diritti e chi si batte per la staticità e l’esclusione; tra chi crede nel conflitto come motore del progresso e chi celebra la pace nel cuore di una democrazia desertificata. Se i “luigini” rappresentano a pieno titolo un universo – simultaneamente borghese e piccolo-borghese – fatto di autorità locali e burocrati indistintamente squallidi e meschini, votati all’opportunismo, al doppiogiochismo, al trasformismo, all’eterno presente, i “contadini” – al di là della classe sociale di appartenenza – incarnano chi vive in forma costruttiva, con aspirazioni comunitarie ed egualitarie, il proprio tempo e la propria dimensione storica con uno sguardo rivolto ai giorni che verranno, per sé e le generazioni future.</p><p style="text-align: justify;">I passi in cui Levi fa parlare Andrea sono tormentati e carichi di delusione: “Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al governo, e poi di non esserne cacciati”. Lette con gli occhi del presente, queste parole sembrano descrivere i sentimenti largamente condivisi. Nella recente storia politica italiana, mentre il quadro politico progressivamente si spostava verso destra, più volte è stata utilizzata durante le campagne elettorali la categoria “impolitica” e opaca di “voto utile”. Una strategia che considerava fruttuoso ed adeguato la preferenza data alle forze politiche in predicato di vittoria e non al partito/coalizione più vicino all’elettore per cultura, sensibilità, istanze ideali e materiali, ma che ha portato a una disfatta politico-culturale.</p><p style="text-align: justify;">Un altro punto de <i>L’Orologio</i> su cui vale la pena riflettere è quello in cui Ferruccio Parri – il glorioso comandante partigiano dal nome di battaglia di “Maurizio” amaramente fotografato come “un crisantemo sopra un letamaio” – convoca una conferenza stampa per parlare al Paese nelle vesti di capo di un governo agonizzante. “Lo guardavo diritto in mezzo ai due compagni di destra e di sinistra, dai visi fin troppo umani, accorti, avidi di cose presenti, e mi pareva che egli fosse impastato della materia impalpabile del ricordo, costruito col pallido colore dei morti, dei fucilati, degli impiccati, dei torturati con le lacrime e i freddi sudori dei feriti, dei rantolanti, degli angosciati, dei malati, degli orfani, nelle città e nelle montagne”, si legge nel romanzo. Levi carica sulla sagoma di Parri il peso ideale e materiale della Resistenza. Siamo a pochi mesi dal 1945, la Repubblica e la Costituzione devono ancora vedere la luce e le azioni dei partigiani sembrano perdere già di senso di fronte al rischio della caduta del governo. Nonostante l’amarezza di Levi, però, solo dieci anni dopo, le sue stesse parole sembrano rivivere con un senso rigenerato. È il 26 gennaio del 1955, quando a Milano, nel Salone degli affreschi della Società Umanitaria, il giurista Piero Calamandrei, rivolgendosi a studenti universitari e medi dirà: “Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. […] Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione”.</p><p style="text-align: justify;">La sofferenza e la disillusione di Levi nel corso del romanzo si mescolano allo stesso modo a uno sguardo sereno e fiducioso verso il futuro. Quello che Levi offre è un nuovo affresco sulla dimensione quotidiana del secondo dopoguerra, l’affermarsi di un tempo che secondo le sue parole potremmo definire “contadino”, perché – in continuità con le scelte partigiane della Resistenza – impegna gli uomini e le donne di buona volontà a scegliere da che parte stare, a cosa dedicare il proprio tempo e le proprie risorse. “Guardate le facce delle persone, i loro gesti, la loro attività […], non hanno perso quello che avevano trovato allora, e forse non lo perderanno per molto tempo. Sono vivi, attivi, tirano su muri diroccati, si sposano, fanno all’amore, cercano tutti i modi possibili, senza pigrizia e senza lamenti, di guadagnare la vita, di migliorarla e, con una incredibile rapidità, si sono dimenticati della guerra, della paura, del sangue, della servitù, del moralismo, della falsa santità, degli stati e delle leggi, e di tutte le menzogne e le atrocità degli anni passati”.</p><p style="text-align: justify;">Questa immagine si concretizzerà nel referendum sulla forma istituzionale dello Stato del 2 giugno 1946, quando, chiusa l’esperienza della dittatura fascista, una straordinaria partecipazione alle urne – l’affluenza ai seggi registrò l’89,08%, 28 milioni erano i cittadini e le cittadine con diritto di voto – portò alla nascita della Repubblica e alla elezione di un’Assemblea costituente che avrebbe scritto la carta costituzionale. Numeri sulla partecipazione al voto che risuonano mestamente rispetto alle previsioni di voto del prossimo 25 settembre in cui l’astensionismo è stato stimato intorno al 33% (dati Ipsos), una percentuale che rappresenterebbe il record nella storia dell’Italia repubblicana e un aumento “di oltre 6% rispetto al dato delle elezioni del 2018, quando l’affluenza fu pari al 72,9%”.</p><p style="text-align: justify;"><i>L’Orologio</i> è un classico che, come tutte le opere rappresentative di un’epoca, ha ancora la capacità di parlare al presente e al futuro, alla luce di un’attualità politica che vede l’Italia prepararsi al primo voto autunnale della sua storia repubblicana, nel pieno di una crisi multiforme e per di più alla vigilia del centenario della marcia su Roma. Il complesso pensiero che lo attraversa non smette di interrogarci, soprattutto laddove ci si interroga sulla qualità della classe dirigente del Paese e laddove si conducono battaglie politico-culturali in cui i valori legati alla cultura fascista riaffiorano pericolosamente in forze politiche non legate storicamente al patto costituzionale maturato grazie alla Resistenza. I rischi del risultato delle urne del 25 settembre prossimo non sono forse quelli di un ritorno a un regime totalitario come quello che l’Italia ha conosciuto in passato – e per questo storicamente irripetibile – quanto il trionfo di forze che in Parlamento potranno, numericamente, modificare la Carta costituzionale secondo “valori” – come dichiarato dallo storico Giovanni De Luna – “antitetici a quelli della religione civile degli italiani nata con la Costituente”. In caso di vittoria, il 28 ottobre 2022 sarà un appuntamento di portata storica per capire in che modo l’Italia si relazionerà con la sua espressione politica più tragica: il fascismo, quel movimento politico che Piero Gobetti considerava “autobiografia della nazione”.</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://thevision.com/cultura/orologio-carlo-levi/?sez=author&ix=1&authid=362" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su TheVision.com il 20 settembre 2022.</a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-53108971740601196842022-08-16T10:05:00.004+02:002024-03-16T08:03:01.414+01:00L'anno dell'odio e dei depistaggi, in odore di mafia<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiWM1TxLPZQNdSR4KAF0te84fb22vGf5WpvrE0mFTtyxMUb2hzRYCmvvBntXA8upLZ3pCgCKTq19VC7VWPDeVJEcb9uwya62cCw4n-m5BZo85q6j02jFHiX-142Ws4N4jlKVDFsMrvg2dWMKk5ZJ8CQ8GlcBOWIGwkaS5mgzVU4PYCsc_ZaK_bGr4sJgw" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" data-original-height="835" data-original-width="1280" height="209" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiWM1TxLPZQNdSR4KAF0te84fb22vGf5WpvrE0mFTtyxMUb2hzRYCmvvBntXA8upLZ3pCgCKTq19VC7VWPDeVJEcb9uwya62cCw4n-m5BZo85q6j02jFHiX-142Ws4N4jlKVDFsMrvg2dWMKk5ZJ8CQ8GlcBOWIGwkaS5mgzVU4PYCsc_ZaK_bGr4sJgw" width="320" /></a></div><br />«Non eravamo più niente. Sin da quando dovemmo ammazzarlo tutti e tre signor giudice, benché solo uno di loro fosse il bersaglio dell’odio che ci trasmisero nello stesso istante in cui ci comandarono la strage». «Mi chiamo Gaspare, ho trentadue anni ma tutti mi chiamano Gasparo perché a Palermo i nomi devono finire con la o. Gaspare pare il nome di una pulla. Quindi io sono Gasparo». Due discorsi diretti e tesi. Due voci di killer di mafia che non indugiano. Queste le prime parole che accompagnano la lettura di <i>Malacarne</i> dello scrittore e giornalista Giosuè Calaciura (suo esordio pubblicato nel 1997 con Baldini&Castoldi, risorto questa primavera con Sellerio, pp. 216) e <i>Centoventisei</i> firmato dallo sceneggiatore Ezio Abbate (per lui debutto letterario) e dal multiforme Claudio Fava, oggi presidente della Commissione antimafia siciliana (Mondadori, pp. 132). <p></p><p style="text-align: justify;">Due mafia-novel sugli scaffali delle librerie italiane in questa estate che non sa fare i conti con il trentennale delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Due romanzi che scelgono di monologare drammaticamente. Il primo in forma assoluta, con un solo protagonista anonimo in una città senza nome che ha l’urgenza, a tratti delirante, di rivolgersi come un fiume in piena a un giudice costantemente in scena ma privo di voce. Il secondo con altri due protagonisti che fanno compagnia a Gasparo. Da un lato sua moglie Cosima – ventinove anni e un ventre in dolce attesa – che si confida così: «Mio marito è un mafioso. Ma è pure un bravo cristiano, un lavoratore, uno che si toglie gli occhi dalla faccia per farmi stare bene». Dall’altro l’orfano Cristoforo, “cane di bancata” ribattezzato da tutti Fifetto che dopo una vita di «tiri storti, camurrie, giri a vuoto» sogna di diventare picciotto l’estate del 1992, poche ore prima che il giudice Borsellino salti in aria con la sua scorta una domenica di luglio.</p><p style="text-align: justify;"> Quattro personaggi che raccontano la vita in odor di mafia. Le sue consuetudini e le sue ossessioni. Le sue prassi e le sue irregolarità. <i>Malacarne</i>, giudicato da più parti il miglior romanzo sulla mafia dai tempi de <i>Il giorno della civetta</i> di Leonardo Sciascia, scritto nell’Italia post-stragi, fra arresti eccellenti e pentitismo di massa, in un clima giudiziario figlio del Maxiprocesso a Cosa nostra e del suo rivoluzionario racconto televisivo. Un romanzo folgorante e vulcanico, capace di estraniarsi dalla narrazione pubblica che <i>mafia-e-antimafia</i> vissero in quel periodo. <i>Centoventisei</i> immaginato per raccontare oggi – in un clima culturale ancora segnato da quel paradigma a più facce che è <i>Gomorra</i> – in forma letteraria e lasciandolo sullo sfondo, l’ennesimo mistero italiano. Un caso di depistaggio con tanto di finto pentito, che ha visto celebrarsi processi di cui è difficile anche solo tenere il conto e sul quale, questo 19 luglio, il procuratore nazionale antimafia Melillo è arrivato a «chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage» (<i>Corriere della Sera</i>). Letteratura che sceglie – eticamente – di allontanarsi dal racconto del “bene”, dando voce a coscienze maledette e disperate, capaci di sognare, confessare, ammettere, ricordare, confidare. Pagine a cui si affiancano in questa torrida stagione gli <i>Appunti per Falcone</i>, un inedito di Franco Scaldati che il sempre eretico Franco Maresco ha portato in scena alle Orestiadi di Gibellina 2022. Un testo in cui il riferimento più chiaro a Giovanni Falcone è il monologo di un boss, con ogni probabilità il “re della Kalsa” Masino Spadaro che il giudice assassinato il 23 maggio 1992 conobbe in gioventù. Operazioni concepite in epoche diverse che oggi convergono parallelamente per arricchire, qualitativamente, l’iperproduzione culturale sulla criminalità organizzata nel nostro Paese (solo sulla strage di Via D’Amelio, ultima in ordine di ricorrenze, si contano oltre ottanta libri). </p><p style="text-align: justify;">In questi trent’anni si è dunque fatto cinema, teatro, fiction, approfondimento televisivo, inchiesta giornalistica, radio, serie Tv, graphic novel, podcast. Impossibile, attraverso questo gigantesco corpus narrativo, non avere nel proprio immaginario un’idea di cosa sia (stata) la mafia nella storia nazionale. Allo stesso tempo si avverte, in linea generale, la sensazione che abbia più volte prevalso il racconto individuale e la testimonianza diretta di quanto accaduto, favorendo il legittimo portato emotivo di vicende tristi e dolorose. È spesso venuta meno la complessità e la drammaticità degli eventi che hanno minato e continuano a minacciare, indebolendolo, il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Contemporaneamente si è alimentata una percezione, non sempre serena e matura, dell’attività giudiziaria che ha permesso a questo potere di essere vissuto come una cintura di salvataggio a disposizione di una timida e tremolante democrazia. Il racconto del “male” è stato poi stigmatizzato in termini pressoché assoluti, rifuggendo da qualsiasi tentativo analitico perché ritenuto antieducativo e civilmente scorretto. Hanno trionfato, sul versante opposto, le icone dei martiri dell’antimafia, più volte oggetto di una grossolana decontestualizzazione delle loro esistenze. Hanno battuto in ritirata i fatti storici e giudiziari nella loro complessità. È stata costruita tanta memoria. Di certo si è fatta poca storia. E ancor meno politica, la vera arma contro la criminalità mafiosa che il comunista-pacifista Pio La Torre, ucciso il 30 aprile del 1982, definì «fenomeno di classi dirigenti». </p><p style="text-align: justify;">In questo quadro, le pagine di <i>Malacarne</i> e <i>Centoventisei</i>, insieme agli <i>Appunti</i> di Scaldati diventano tentativi che cercano di dare sollievo e conforto a quel «binomio sofferto» – così lo definì Vincenzo Consolo nel 1994 – che mafia e letteratura hanno rappresentato nella nostra storia. Lo fanno credendo religiosamente alla forza della parola. D’altronde, in principio era il verbo. Tutto il resto venne dopo.</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://ilmanifesto.it/lanno-dellodio-e-dei-depistaggi-in-odore-di-mafia" target="_blank">*L'articolo, con il titolo <i>Monologhi drammatici</i>, è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 30 luglio 2022.</a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-77894648683221027552022-08-16T09:57:00.006+02:002022-10-18T11:36:09.344+02:00Paolo Taviani: “Quella volta che la mafia proibì le bandiere rosse”<p style="text-align: justify;">“Scoprimmo la storia di Salvatore Carnevale nel 1958, quando con mio fratello Vittorio girammo un documentario scritto da Ignazio Buttitta. Si intitolava <i><a href="https://www.youtube.com/watch?v=XDMCR8Wo_hk" target="_blank">Sicilia all'addritta</a></i>”. Così Paolo Taviani - 90 anni compiuti lo scorso novembre e in concorso all'ultima Berlinale con <i>Leonora addio</i>, primo film girato dopo la morte di suo fratello Vittorio e vincitore del premio Fipresci della critica internazionale - inizia il racconto di “Un uomo da bruciare”, il primo lungometraggio della coppia, scritto e diretto insieme a Valentino Orsini e uscito nelle sale italiane nel giugno del 1962. Sessant'anni fa. “Fu un viaggio che rivelò ai nostri occhi luoghi e storie che non conoscevamo. Tra gli incontri che facemmo ci fu quello con Francesca Serio, la madre di questo sindacalista ucciso nel 1955 dalla mafia. Una donna forte, capace di denunciare gli assassini di suo figlio a cui Carlo Levi aveva dedicato pagine memorabili”.</p><p style="text-align: justify;"><b>Cosa ricorda di questa donna al cui caso si interessò, nelle vesti di avvocato, Sandro Pertini?</b></p><p style="text-align: justify;"><span face="Calibri, sans-serif" style="font-size: 11pt;">“</span>Piccolina, magra, con due occhi scintillanti. Ci accolse con gentilezza e volle condurci al cimitero di Sciara, dove era sepolto suo figlio. Avevamo poca pellicola e giravamo con una Arriflex rumorosissima che faceva 'cra cra cra'. Piazzammo la macchina da presa, lei ci guardò e iniziarono momenti degni di una tragedia greca. Francesca Serio si inginocchiò mettendo le mani sulla tomba, iniziò a invocare suo figlio per poi stendersi sulla lastra di marmo. Sembrava recitare ed invece il suo dolore era autentico. Sentimmo che quella donna andava ricordata per la sua storia e per quella di suo figlio che non c'era più. Continuammo a fare ricerche sulla tragica fine di Carnevale e decidemmo di farne un film<span face=""Calibri",sans-serif" style="font-size: 11pt; line-height: 107%; mso-ansi-language: IT; mso-ascii-theme-font: minor-latin; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-bidi-language: AR-SA; mso-bidi-theme-font: minor-bidi; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin; mso-hansi-theme-font: minor-latin;">”</span>.</p><p style="text-align: justify;"><b><span face="Calibri, sans-serif" style="font-size: 11pt;">“</span>Un uomo da bruciare<span face=""Calibri",sans-serif" style="font-size: 11pt; line-height: 107%; mso-ansi-language: IT; mso-ascii-theme-font: minor-latin; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-bidi-language: AR-SA; mso-bidi-theme-font: minor-bidi; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin; mso-hansi-theme-font: minor-latin;">”</span> fu per Gian Maria Volonté il primo grande ruolo da protagonista. Come fu il vostro rapporto con questo attore divenuto poi un simbolo del cinema politico italiano?</b></p><p style="text-align: justify;"><span face="Calibri, sans-serif" style="font-size: 11pt;">“</span>Fino a quel momento Volonté aveva fatto poco cinema e tanto teatro, dove era davvero straordinario. Inizialmente però avevamo pensato a Turi Ferro per il ruolo di Salvatore ma ci fece cascare le braccia la sua calvizie. Turi ci rimase male. Era pronto anche a indossare un parrucchino. Lo coinvolgemmo ugualmente, nella parte del mafioso don Vincenzo. Il provino di Volonté non andò bene. Fu uno dei più brutti della nostra carriera. La sua teatralità ci sembrava eccessiva e ci spaventava un po'. Ma Gian Maria aveva un corpo e un volto così potenti che decidemmo comunque per lui. Doveva infatti recitare la parte di un uomo che parlava a masse di contadini e operai, che guidava l'occupazione di feudi e terre incolte, sfidando il potere della mafia. Volonté capì questo sentimento e gestì nel migliore dei modi il personaggio al servizio della recitazione<span face=""Calibri",sans-serif" style="font-size: 11pt; line-height: 107%; mso-ansi-language: IT; mso-ascii-theme-font: minor-latin; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-bidi-language: AR-SA; mso-bidi-theme-font: minor-bidi; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin; mso-hansi-theme-font: minor-latin;">”</span>.</p><p style="text-align: center;"><b><iframe allow="accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/wYj6Mih5mC4" title="YouTube video player" width="560"></iframe></b></p><p style="text-align: justify;"><b>Il film fu presentato a Venezia sempre in quel 1962 vincendo il Premio della critica, il Premio cinema nuovo e il Premio cinema 60. Stampa, partiti, opinione pubblica come lo accolsero?</b></p><p style="text-align: justify;"><span face="Calibri, sans-serif" style="font-size: 11pt;">“</span>I critici sottolinearono che era un film tragico dove non mancava un pizzico di ironia, cosa abbastanza rara nel cinema cosiddetto di impegno. Il protagonista era la negazione dell'eroe di stampo sovietico. Era un personaggio pieno di difetti, un uomo alienato, dal carattere complesso e contradditorio. Facemmo vedere il film ai dirigenti del Partito comunista. All'epoca si usava fare anche così... Ricordo che Mario Alicata, responsabile della commissione culturale del partito, ci accusò di aver infangato la memoria di un compagno valoroso. A Giorgio Amendola, invece, piacque. Piacque molto. All'interno del partito la discussione fu molto forte<span face="Calibri, sans-serif" style="font-size: 11pt;">”</span>.</p><p style="text-align: justify;"><span face="Calibri, sans-serif" style="font-size: 11pt;">“</span><b>Un uomo da bruciare</b><span face=""Calibri",sans-serif" style="font-size: 11pt; line-height: 107%; mso-ansi-language: IT; mso-ascii-theme-font: minor-latin; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-bidi-language: AR-SA; mso-bidi-theme-font: minor-bidi; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin; mso-hansi-theme-font: minor-latin;">”</span><b> era un film che sembra avere ancora forti appigli con il neorealismo ma ha la forza e la potenza per superarlo e andare verso nuovi canoni estetici.</b></p><p style="text-align: justify;"><span face="Calibri, sans-serif" style="font-size: 11pt;">“</span>Il personaggio di Volonté, con i suoi incubi e le sue visioni, andava al di là dei criteri neorealistici. Con il neorealismo noi siamo nati. Lo abbiamo amato tanto e a un certo punto lo abbiamo dimenticato. Con Bernardo Bertolucci dicevamo sempre che quel cinema lì è stato grande come il Rinascimento. Per me Caravaggio e Rossellini sono sullo stesso piano, ma noi sentivamo la necessità di battere altre strade. Sentivamo che - non so - quel cinema, negli epigoni, era diventato piccolo-borghese. Volevamo, parafrasando un film dello stesso Rossellini, un 'cinema anno zero', un cinema nuovo. Ci abbiamo provato. Gli errori, come in tutte le cose, non sono mancati<span face="Calibri, sans-serif" style="font-size: 11pt;">”</span>.</p><p style="text-align: justify;"><b>Torniamo alla lavorazione del film che fu girato in larga parte nel territorio di Sciara. Che successe sul set?</b></p><p style="text-align: justify;"><span face="Calibri, sans-serif" style="font-size: 11pt;">“</span>Il budget del film non era dei più floridi. Grazie alla locale Camera del lavoro, al suo segretario che tanto ci aveva raccontato di Salvatore Carnevale, facemmo un incontro con la popolazione, in cui io e Vittorio chiedemmo di donarci dei vestiti smessi, utili per la realizzazione dei costumi di scena. Ricevemmo bauli e sacchi pieni di capi di abbigliamento. Ignazio Buttitta fu invece il nostro consulente per i dialoghi e le battute in siciliano. Di grossi problemi, in generale, non ne avemmo, ma per la scena finale, quella del funerale di Salvatore, la tensione si fece sentire. La mafia locale ci fece sapere che se fosse apparsa una bandiera rossa nelle strade del paese avrebbe sparato. Toni Secchi, il nostro direttore della fotografia, disse: 'Non vi preoccupate. Il film è in bianco e nero. Noi usiamo delle bandiere azzurre e il pubblico le vedrà rosse'. Così è stato. Ricordo che mentre giravamo la scena lungo la scalinata noi eravamo dietro la macchina da presa insieme a Volonté. Ai nostri occhi le bandiere erano rosse. A un certo punto mi voltai verso Gian Maria. Stava piangendo<span face=""Calibri",sans-serif" style="font-size: 11pt; line-height: 107%; mso-ansi-language: IT; mso-ascii-theme-font: minor-latin; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-bidi-language: AR-SA; mso-bidi-theme-font: minor-bidi; mso-fareast-font-family: Calibri; mso-fareast-language: EN-US; mso-fareast-theme-font: minor-latin; mso-hansi-theme-font: minor-latin;">”</span>.</p><p style="text-align: justify;"><a href="https://palermo.repubblica.it/societa/2022/07/12/news/paolo_taviani_quella_volta_che_in_sicilia_la_mafia_ci_proibi_le_bandiere_rosse-357485769/" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su <i>La Repubblica-Edizione Palermo</i> il 12 luglio 2022.</a></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8385786094567182918.post-37209417275994037992022-08-16T09:46:00.005+02:002022-11-06T20:52:29.797+01:00La storia di Pio La Torre ci ricorda che il vero impegno politico per la pace è una responsabilità<p style="text-align: justify;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiPZZf7NohaC1u2mcH2iDAXsSSDyJHGEESi7EsSGdN5ty44wQCDwwoaKx4WYkhNMgP19BXuYIsW9a62SyeaHNzrk5tecT0dsC31yWZ522nl-3iRHr3NtZSLfnY8_2vNDrLx6JKochY6YR02zIeuxWNqO_B20Ase8-NKzXbue7bMcFNGooMQuCy1kXy61w" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img alt="" data-original-height="273" data-original-width="218" height="240" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEiPZZf7NohaC1u2mcH2iDAXsSSDyJHGEESi7EsSGdN5ty44wQCDwwoaKx4WYkhNMgP19BXuYIsW9a62SyeaHNzrk5tecT0dsC31yWZ522nl-3iRHr3NtZSLfnY8_2vNDrLx6JKochY6YR02zIeuxWNqO_B20Ase8-NKzXbue7bMcFNGooMQuCy1kXy61w" width="192" /></a></div><br /><div style="text-align: justify;">Palermo, 2 maggio 1982. La fotografa Letizia Battaglia sta seguendo un corteo funebre lungo le strade della città. Una folla sterminata si dirige verso Piazza Politeama. Movimento pacifista e movimento antimafia si fondono in un unico corpo in dolorosa marcia. A un tratto l’obiettivo scorge la sagoma di un’anziana donna che piange e prega. Quel corpo, mani conserte e ginocchia piegate, davanti al mirino assume la forma di una scultura che racchiude, anima e corpo, i sentimenti del dolore e dello sgomento della Palermo popolare. Quel giorno, in città, ci sono il presidente della Repubblica Sandro Pertini, la presidente della Camera Nilde Iotti, il segretario del Pci Enrico Berlinguer, il futuro Capo dello Stato Sergio Mattarella. Sono ancora una volta momenti di dolore per il capoluogo siciliano che, in quelle ore, celebra <a href="http://www.regionesicilia.rai.it/dl/sicilia/video/ContentItem-9fc9c2a0-a49a-4261-9e64-89282d635114.html" target="_blank">i funerali del segretario del Pci siciliano e di un suo stretto collaboratore</a>, ennesime vittime innocenti di una guerra che Cosa Nostra sta portando avanti contro la democrazia italiana.</div><p></p><p style="text-align: justify;">Pio La Torre e Rosario Di Salvo sono stati uccisi il 30 aprile, alla vigilia del primo maggio, festa dei lavoratori e trentacinquesimo anniversario dell’eccidio di Portella della Ginestra, la prima strage dell’Italia repubblicana. “1° Maggio insanguinato da un barbaro delitto politico-mafioso” scrive <i>L’Unità</i>. A sparare un gruppo di fuoco a bordo di una moto e di un’auto, composto da Giuseppe Lucchese, Antonino Madonia, Giuseppe Greco, Salvatore Cucuzza e altri non identificati. Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci, invece, i mandanti riconosciuti come colpevoli. Neanche un mese prima, il 4 di aprile, a Comiso, a un pugno di chilometri da Ragusa dove l’aeroporto è oggi dedicato a La Torre, si è tenuta una marcia oceanica contro l’installazione dei missili Cruise nella locale base Nato. <a href="https://immaginidelnovecento.fondazionegramsci.org/photo/detail/IT-GRAMSCI-FT0001-0028640/comiso-marcia-pace-1" target="_blank">Un popolo festante e colorato ha invaso nuovamente il territorio in nome della pace e del rifiuto della guerra</a>. Ad aver voluto quella manifestazione è stato La Torre, dirigente politico-sindacale, onorevole del Pci, uno degli uomini-simbolo del Novecento italiano. “Sulla Sicilia gravano, oggi, tre minacce: gli effetti della crisi economica, il dilagare della violenza criminale e mafiosa e il suo intrecciarsi col sistema di potere egemonizzato dalla Dc e, infine, la trasformazione dell’isola in avamposto dello scontro fra i blocchi militari contrapposti”, aveva scritto lo stesso La Torre su <i>Rinascita</i> il 4 dicembre del 1981 in un articolo intitolato “Pace e autonomia, base del rilancio unitario”.</p><p style="text-align: justify;">Sulle pagine di quella rivista, La Torre si interrogava su quale “destino” si intendesse “riservare al popolo siciliano in un Mediterraneo già attraversato da tensioni e da focolai di guerra estremamente pericolosi”. Nel giugno del 1980, nel cielo tra l’isola di Ponza e quello di Ustica un DC-9 dell’Itavia proveniente da Bologna e diretto a Palermo era esploso causando la morte di 77 persone e dando vita <a href="https://thevision.com/cultura/strage-ustica-misteri/" target="_blank">a un nuovo mistero italiano</a>. Su cosa sia realmente accaduto quella sera non è stata ancora fatta del tutto luce nonostante decenni di indagini. Eravamo nella fase terminale della Guerra Fredda, nel convulso contesto geo-politico ed euro-mediterraneo, in un Paese membro della Nato e con il Partito Comunista più grande del blocco occidentale. “La scelta di Comiso, estremo lembo Sud dell’Italia,” continuava La Torre, “ci dice che gli ordigni che vi si vogliono installare sono rivolti verso Sud. È qui, infatti, che può scoppiare quella guerra atomica limitata di cui parlano gli attuali governanti americani. La Sicilia rischia, quindi, di diventare bersaglio di ritorsioni in uno scontro che va ben oltre i confini e la concezione difensiva del Patto atlantico ed è contrario agli interessi nazionali. Ecco perché in Sicilia, più che altrove, balza al primo posto l’esigenza di dare vita a un grande movimento per il disarmo e per fare del Mediterraneo un mare di pace”.</p><p style="text-align: justify;">In quei mesi, le manifestazioni contro la guerra si susseguono su scala continentale: Bonn, Londra, Helsinki, Oslo, Bruxelles, Parigi, Venezia, Vicenza, Madrid, Atene, Amsterdam, Messina, Berna, Copenaghen. L’idea di La Torre era quella di inserirsi “nel grande movimento che si sta sviluppando in tutta l’Europa con l’obiettivo di arrivare attraverso il negoziato a ridurre le basi missilistiche a Est e a Ovest. In questo contesto chiediamo al governo italiano di non dare inizio alla costruzione della base a Comiso. Il successo eccezionale della marcia per la pace svoltasi a Comiso l’11 ottobre ha dimostrato che questa impostazione conquista le coscienze dei siciliani, uomini e donne, giovani e anziani, borghesi e proletari, al di sopra di ogni fede politica e religiosa”.</p><p style="text-align: justify;">Pio La Torre era rientrato in Sicilia nell’autunno del 1981, nel pieno dell’ondata mafioso-terrorista e del golpe tutto interno a Cosa Nostra disegnato e attuato dalla fazione corleonese capeggiata da Riina, Provenzano e Bagarella. A Palermo, il quotidiano <i>L’Ora</i> contava i morti in prima pagina. Cadaveri eccellenti e cadaveri ordinari. Senza distinzioni. La seconda guerra di mafia sfoderava tutto il suo carico di morte e di violenza. “Che la vita di mio padre fosse in pericolo era evidente a lui per primo. Questa evidenza non gli aveva impedito di respingere tutti gli affettuosi o autorevoli tentativi opposti alla sua decisione di tornare in Sicilia a combattere, in prima linea, la battaglia politica per il riscatto della sua terra”, scriverà suo figlio Franco nel libro <i>Sulle ginocchia. Pio La Torre, una storia</i>.</p><p style="text-align: justify;">Pio La Torre nasce nel 1927 da una famiglia poverissima, nella borgata palermitana di Altarello di Baida dove non c’era acqua corrente e la luce elettrica arrivò nel 1935, tredicesimo anno dell’era fascista. La sua abitazione, racconterà lo stesso La Torre era “una casa di campagna, […] forse più povera che modesta ma civilissima”. In quegli anni, La Torre capisce che per affrancarsi dalla povertà e dalla sottomissione bisogna aver accesso all’istruzione. La sola scuola può essere motore e causa del cambiamento di una società. Nel 1945 si iscrive all’università e al Partito Comunista. Il 29 ottobre del 1949, quando si unisce in matrimonio civile a Giuseppina Zacco, la sua lunga carriera politico-sindacale ha già preso il via, in un’Italia inquieta e in una Sicilia sconvolta quotidianamente dalle decine e decine di attentati in cui perdono vita sindacalisti e militanti social-comunisti. Placido Rizzotto di Corleone, Calogero Cangelosi di Camporeale e Epifanio Li Puma di Petralia Soprana e qualche anno dopo Salvatore Carnevale di Sciara sono i nomi più celebri di quel periodo. Nel 1944, a guerra ancora in corso, il ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo firma una serie di decreti per “dare continuità e stabilità al lavoro agricolo, [e] incentiva[re], inoltre, il movimento contadino a organizzarsi e a servirsi di strumenti legali, propone[ndosi] di inaugurare un nuovo rapporto tra Stato e masse rurali”.</p><p style="text-align: justify;">Nella neonata Italia repubblicana contadini e contadine si battono per l’attuazione di quei provvedimenti. In Sicilia, nell’aprile del 1947 si va al voto e il Blocco del popolo che riunisce le forze di sinistra segna un avanzamento importante da un punto di vista elettorale. Pochi giorni dopo, le undici vittime e i <a href="https://www.centroimpastato.com/la-strage-di-portella-della-ginestra/" target="_blank">ventisette feriti della strage di Portella della ginestra</a> portano a una svolta centrista dell’assetto politico del nostro Paese. Sta per scoppiare la Guerra Fredda, il quadro politico diventerà prigioniero del rigido centrismo democristiano per dare forma a una democrazia paralizzata.</p><p style="text-align: justify;">Nell’ottobre del 1949, in un quadro giuridico sostanzialmente “pre-costituzionale”, nel crotonese, in Calabria, la polizia spara ad altezza d’uomo uccidendo tre lavoratori. L’episodio passerà alla storia come <a href="https://www.raiplaysound.it/audio/2015/10/Leccidio-di-Melissa---Wikiradio-del-29102015-c3570c08-b9a2-40a9-b3fd-69e8566f86f5.html" target="_blank">l’eccidio di Melissa</a>. In quelle ore La Torre è in viaggio di nozze, ma rientra a Palermo per organizzare l’occupazione delle terre nel corleonese. È la mattina del 13 novembre 1949 quando circa seimila persone all’alba si dirigono verso i feudi da occupare. Tra questi vi è quello di Strasatto. Lì, a fare da campiere, vi è Luciano Liggio. Qualche mese dopo, nel marzo del 1950, La Torre guida un corteo di contadini a Bisacquino. La polizia spara. La Torre cerca una mediazione ma viene arrestato e condotto nel carcere borbonico dell’Ucciardone a Palermo. Nei diciassette mesi di detenzione, perderà la madre e nascerà il suo primogenito Filippo di cui incrocerà lo sguardo la prima volta proprio tra le mura del penitenziario. È dura la vita dietro le sbarre per il giovane Pio. Racconterà sua moglie Giuseppina: “Le lettere che ci scrivevamo, venivamo previamente lette e anche censurate per cui […] ci accordammo che alla fine avremmo aggiunto la parte più intima, scritta col limone, illeggibile se non si passa una fiammella sotto al foglio”.</p><p style="text-align: justify;">Il lavoro. La pace. La lotta alla mafia intesa come “fenomeno di classi dirigenti”. I diritti. Queste sono le battaglie legate alla vita concreta delle persone che La Torre conduce fin dagli esordi della sua parabola pubblica. Nel 1952, pochi mesi dopo l’istituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), nove anni prima della prima Marcia Perugia-Assisi, La Torre, nelle vesti di segretario della Camera Confederale del Lavoro di Palermo promuove una raccolta di firme per aderire alla campagna a favore dell’appello di Stoccolma, lanciata dal movimento internazionale per la pace per la messa al bando delle armi atomiche. L’eco della seconda guerra mondiale da poco conclusasi con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki risuona ancora. In quel 1952 La Torre entra poi in consiglio comunale a Palermo dove vi resterà fino al 1966.</p><p style="text-align: justify;">Sono gli anni caldi del boom edilizio, in cui a ricoprire la carica di assessore ai Lavori pubblici sono Vito Ciancimino e Salvo Lima. Sono gli anni del “sacco di Palermo” che sfigura per sempre il volto della città con lo slogan “Palermo è bella, facciamola più bella”. Ha scritto John Dickie in <i>Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana</i>: “Tra il 1959 e il 1963 […] il consiglio comunale concesse 4205 licenze edilizie, l’80 per cento delle quali andò a soli cinque uomini. E siccome in quel periodo il grosso dell’economia palermitana dipendeva dall’edilizia sovvenzionata con fondi pubblici, per le mani di queste cinque persone passò una quota enorme della ricchezza della città”. La Torre denuncia e combatte incessantemente il groviglio politico-mafioso che soffoca la città. Nel 1964, davanti all’Assemblea Regionale Siciliana esclama: “Il vero nodo da sciogliere oggi è perciò quello della mafia inserita nell’attuale sistema di potere. Affrontare questo tema significa entrare nell’ordine di idee di costruire un nuovo sistema di potere, basato veramente sulla democrazia politica e sulla democrazia economica in Sicilia”.</p><p style="text-align: justify;">Il suo percorso nelle istituzioni prosegue nelle vesti di deputato regionale prima che nel 1972, in un’Italia che ha già conosciuto i primi effetti della strategia della tensione, possa sedere in Parlamento e diventare membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, <a href="https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1962/12/29/062U1720/sg" target="_blank">istituita nel dicembre del 1962 dalla legge n. 1720</a>. Nel 1976, la Commissione pubblica il suo rapporto finale. A redigere e sottoscrivere la relazione di minoranza ci sono le firme “dei deputati La Torre, Benedetti, Malagugini e dei senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano, Maffioletti nonché del deputato Terranova”.</p><p style="text-align: justify;">Vengono analizzati, tra gli altri, i rapporti “mafia-banditismo-governo” nell’immediato secondo dopoguerra, la stagione delle lotte contadine e della riforma agraria, le caratteristiche della “mafia urbana” e i rapporti tra “mafia e potere” nella Sicilia di allora. Nella relazione ci sono nomi e cognomi di politici conniventi con il mondo mafioso. Uomini del calibro di Vito Ciancimino, Salvo Lima, Giovanni Gioia e i cugini Salvo. “La relazione di La Torre,” commenterà Emanuele Macaluso in <i>L’antimafia dei comunisti. Pio La Torre e la relazione di minoranza</i>, “analizza con acutezza e vasta informazione una lunga fase in cui il rapporto mafia-politica e mafia-istituzione hanno un segno preciso: la mafia è parte del blocco sociale e di potere che si contrappone alla sinistra “social comunista””. Una chiosa che tiene in considerazione lo scacchiere geopolitico internazionale in cui “il nemico principale degli Usa, dell’occidente, è il comunismo e il campo sovietico”. La relazione di minoranza del 1976 vedrà, quarant’anni dopo, una “simbolica” e importante approvazione da parte della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi, che sottolineerà come quel lavoro contenesse già “tutti i fondamenti della legislazione di contrasto alle mafie, che furono introdotti purtroppo solo dopo il suo omicidio e quello del generale Dalla Chiesa”.</p><p style="text-align: justify;">Pio La Torre aveva illustrato il suo progetto politico anche al giornalista Giuseppe Marrazzo che, dopo l’omicidio del giudice Cesare Terranova, avvenuto il 25 settembre del 1979, aveva realizzato in Sicilia un <a href="https://www.raiplay.it/video/2022/04/Mafia-Dossier---Tg2-Dossier-Una-vita-contro-la-mafia-bce5bb48-c96f-4a81-8840-e49d33408bfc.html" target="_blank">reportage Rai</a> dal titolo <i>Una vita contro la mafia</i>. Davanti alle telecamere, La Torre aveva insistito sulla necessità di sottrarre beni e ricchezze alla criminalità mafiosa, invitando l’opinione pubblica a concentrare l’attenzione “sull’illecito arricchimento” delle cosche. “Presenteremo precise proposte per dotare polizia e magistratura degli strumenti legali necessari per potere perseguire su questo terreno i presunti mafiosi”, aveva energicamente dichiarato. Nel suo progetto di legge, erano previsti controlli patrimoniali per andare a colpire la disponibilità economica dei mafiosi, l’introduzione del reato di associazione di tipo mafioso e nuove disposizioni in materia di appalti che avevano l’obiettivo di svelare quel segreto bancario fedele alleato del riciclaggio di denaro sporco. La legge n. 646/1982, conosciuta come legge Rognoni-La Torre, vedrà la luce il 13 settembre del 1982, dieci giorni dopo l’omicidio del prefetto di Palermo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo. L’introduzione dell’articolo 416-bis nel codice penale sarà per il nostro Paese uno dei grandi lasciti di Pio La Torre, un uomo che considerava fare politica impegno e responsabilità e per questo “meritava di essere ucciso”. “Perché,” dirà Enrico Berlinguer durante la sua orazione funebre, “non era uomo da limitarsi a discorsi, analisi, denunce di una situazione, ma era un uomo che faceva sul serio alla testa di un grande partito di lavoratori e popolo”.</p><p><a href="https://thevision.com/cultura/pio-la-torre/?sez=author&ix=1&authid=362" target="_blank">*L'articolo è stato pubblicato su TheVision.com il 9 giugno 2022.</a></p><p><br /></p>Andrea Mecciahttp://www.blogger.com/profile/04378741979995590098noreply@blogger.com0