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Quando il calcio è fratellanza. When soccer is brotherhood

Qualche giorno fa ero a Berlino. Dormivo in un ostello a pochi passi dalla non bella ma mitica e affascinante Alexander Platz, Alex per i berlinesi, al confine tra il quartiere di Mitte e quello di Prenzlauer Berg. Negli ostelli del Nord Europa si respira una bella atmosfera, un misto di asilo e college universitario. Gli ostelli creano una identità forte e un senso di appartenenza ai suoi visitatori. Sono economici e offrono ottimi servizi. Ti capita di dormire in delle camerate anonime piene di gente di tutto il mondo, con gli inglesi che vanno al bagno scalzi, si fanno la doccia, si vestono e si rimettono a letto con le scarpe. Tutti si salutano, basta un «Hi» o un «Hallo» per iniziare a fare amicizia. Nello stanzone dove dormivo, una eightbedsroom, la mattina mi sveglio e trovo un ragazzo inglese che si è appena levato su dal letto e ha già indossato attorno al collo la sciarpa del Queens Park Rangers, squadra di Londra che milita nella Championship, la serie B inglese. Iniziamo a parlare. Io sono italiano, come Flavio Briatore che per un periodo è stato il padrone del Queens e come l'allenatore Gigi De Canio che ha seduto sulla panchina inglese per qualche tempo. Mi chiede come va il Napoli. Io dico che dopo tanti anni di sofferenza finalmente è tornato in serie A su livelli accettabili e che finalmente abbiamo un grande giocatore che ricorda Maradona, l'argentino Lavezzi, el Pocho loco. Lui dice: «Cool…», e va a farsi la doccia. Io esco in giro per la città, nel pomeriggio vado a vedere un film al Festival del Cinema, ma il vero obiettivo è trovare in qualche negozio dell'usato la maglietta della nazionale di calcio della DDR. La domenica in un flohmarkt nel quartiere di Friedrichsain, un ragazzo che aveva una bancarella di vestiti mi ha detto che viene dalla DDR e non sarebbe politicamente corretto per lui vendere quella maglia. Io gli ho spiegato che per me trovare quella maglia avrebbe voluto dire portare a casa un reperto storico, che ero un libertarioanticapitalista e per la dittatura della Germania dell'Est non avevo simpatie. Ma mi sono messo nei suoi panni e ho pensato che io non ho vissuto apertamente in una dittatura e forse era giusto non alimentare una polemica. L'ho salutato e sono andato via. Giro un po’ di negozi dell’usato e tutti mi dicono che è molto difficile trovarla e mi consigliano di cercare su Ebay. Fa molto freddo, devo mangiare qualcosa e poi alle 14 devo essere al cinema Cubix di Alexander Platz per la proiezione.

Il film non è stato un granchè, Berlino è avvolta da un freddo polare e mi conviene tornare in ostello a riscaldarmi un po’. Vedo in fondo ad uno stradone un grosso edificio in marmo, su cui campeggia uno striscione che recita «Fuck off, Amerika». Sono a Rosa Luxemburg Strasse e sembra di camminare lungo la strada che porta alla rivoluzione, ma sulla sinistra c’è un locale di strip tease, l’ansia rivoluzionaria si raffredda in un momento ed è meglio cercare riparo. Entro in un negozio di abbigliamento e leggo che vende capi disegnati solo da artisti provenienti dall'ex DDR e dall'Europa dell'Est. Chiedo alla ragazza cosa sia quella scritta e quell'edificio.

«E' il Volksbühne, il teatro del popolo, e Fuck off, Amerika è il titolo di uno spettacolo in programma. Tutti si sorprendono nel vedere la scritta, ed io li tranquillizzo.».

Do un ultimo sguardo al negozio: belle borse in stile pop-art di oltre cortina, cd di russian disko e musica balcanica, spillette di Lenin. Devo rientrare in ostello. Infreddolito apro la porta della eightbedsroom e trovo due ragazzi seduti al tavolo al centro della stanza intenti a navigare su internet. Mi salutano e subito mi dicono: «Italiano? ».

«Si», rispondo.

«We are brasilian and yesterday Brasil 2 Italy 0. Come here, now we'll show you Brasil’s goals. My name is René».

«I’m Junior. How do you do»

«Andrea. Nice to meet you.»

Effettivamente due grandissimi goals, il primo di Elano, il secondo di Robinho. Il primo è poi una tipica azione brasiliana: fase lenta del gioco, improvvisa accelerazione, gran possesso di palla, numeri di alta scuola e gol. Ma René mi dice mostrandomi il logo SPFC che ha sulla giacca: «Ok Brasil, but our heart is for São Paulo. São Paulo Futebol Clube. Do you know?».

«Of course. Morumbi Stadium»

E da lì iniziamo a parlare ininterrottamente. Abbandoniamo l’inglese e René mi dice che dobbiamo parlare con il cuore, loro in brasiliano, io in italiano. Se parliamo con il cuore, la testa capisce. Io gli ricordo i primi due gol di Kakà con la maglia del São Paulo nella finale del campionato Rio São Paulo contro il Botafogo e loro rimangono un pò sorpresi. Mi chiedono per quale squadra faccia il tifo.

«Napoli!», esclamo con orgoglio.

«Careca», ribattono loro.

«Antonio Filho de Oliveira»

«Alemao»

«Rogerio Ricardo de Brito»

Insomma fra calciatori brasiliani del presente e del passato che hanno militato in Italia andiamo avanti un bel po’, ma René ha l’incubo di Paolo Rossi, che spezzò il suo sogno di bambino rifilando tre gol al Brasile nel mondiale di Spagna ’82. Insomma per René Pablito è un po’ come colui che rese amare a noi bambini italiani le notti magiche di Italia ’90, Claudio Paul el Pajaro Caniggia che beffò Zenga con un velenoso colpo di testa. Mi elenca tutti i giocatori di quel Brasile che non arrivò fra le prime quattro ma che aveva fior fior di giocatori.

«Falcão, Sócrates, Junior, Zico, Eder…»

E al nome di Eder la mente va ad Oronzo Canà (Lino Banfi) che va in Brasile a cercare un fuoriclasse e Giginho (Gigi Sammarchi), uno che ha le mani in pasta dappertutto, gli mostra il murales su cui sono i dipinti i giocatori della selecão brasiliana e al nome di Eder, Canà si avvicina ad una bella brasiliana esclamando: «Eder, Seder, Seder…». Vorrei tentare di spiegar loro questa cosa, ma mi sembra di sfidare le colonne d’Ercole e desisto.

Dopo aver rievocato il terzino destro goleador Jocimar, la sconfitta con la Francia ai rigori nel mondiale di Mexico ’86 con gli errori dagli undici metri di Zico e Platini, la beffarda vittoria dell’Argentina negli ottavi di Italia ’90 con un gol di Caniggia su superbo assist di Maradona (il giorno della mia comunione), abbandoniamo il discorso nazionale per tornare a parlare del São Paulo e dei suoi storici giocatori.

«Raí?», mi domandano loro.

«Raí? - rispondo - Giocava nel Paris Saint Germain ed era il fratello di Sócrates »

«Incrível (incredibile)!»

«Toninho Cerezo?»

«Roma e Sampdoria. Rideva sempre. La sua famiglia aveva un circo e poi vinse la Coppa Intercontinentale contro il Milan segnando un gol. Il 3-2 decisivo lo segnò di tacco Müller, che ha giocato anche nel Torino»

A questo punto René e Junior si guardano negli occhi esterrefatti, fanno un cenno del capo di assenso l’un l’altro. Renè apre il suo valigione, tira fuori un po’ di cose alla rinfusa e mi dice di chiudere gli occhi. Quando li riapro stringe nelle mani una maglia bianca con una banda rossa e una blu che mi porge per rendere indimenticabile il nostro incontro.

E’ la maglia numero 10 del São Paulo Futebol Clube, edizione speciale per la finale di Coppa Intercontinentale vinta contro il Liverpool 1-0 nel 2005, con gol di Marcio Amoroso, ex Udinese e Parma. Rimango pensieroso. Ho sempre indossato numeri compresi fra il 2 e il 6, avendo ricoperto tutti i ruoli di difesa e indossare il 10 sarebbe una responsabilità troppo grande da assumersi anche in una partita di calcetto, ma l’emozione è tanta. Abbraccio Renè e Junior. Rimaniamo tutti senza parole. Abbiamo parlato per un paio d’ore come se ci conoscessimo da sempre.

Sono tornato a Roma. La maglia del São Paulo è nel cassetto, insieme ai miei sogni.

«Chissà – ho pensato una sera prima di addormentarmi – se un giorno vado a São Paulo in Brasile, magari incontro un nostalgico tedesco della Deutsche Demokratische Republik che se gli nomino il gol di Jürgen Sparwasser per la DDR alla Germania Ovest nel mondiale del ’74, mi regala la maglia che ho tanto cercato a Berlino».

La mattina dopo mi sono svegliato e mi sono messo a spulciare su Ebay.

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