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Baarìa, la mafia come accessorio

Il post è stato pubblicato su Strozzateci tutti


Tante bandiere rosse tutte insieme si ricordano nei due atti di Novecento (1976), la magna opera bertolucciana girata a metà anni '70 nella bassa Padana. Un cast e un budget hollywoodiano furono messi al servizio di un ispiratissimo Bernardo Bertolucci che regalò alla storia del cinema un'opera intensa e emozionante. Il film catapultava sulle spalle di un padrone finanziatore di fascisti e di un contadino comunista la storia nazionale della prima metà del secolo scorso. Tante bandiere rosse le ritroviamo in Baarìa (2009), kolossal in salsa sicula di Giusppe Tornatore costato 25 milioni di euro (o forse qualcosa in più) alla Medusa di Silvio Berlusconi. Se qualcuno vide nel finale "accomodante" di Novecento una strizzata d'occhio di Bertolucci alle tessitura del compromesso storico fra Dc e Pci, cosa dovremmo vedere oggi nel finale disneyano di Baarìa del premio Oscar Peppuccio Tornatore? Conosciamo bene il personaggio Berlusconi, abile a restiruirci immagini di sè di editore liberale, di politico con la voglia di mettere le mani al collo a chi scrive libri o gira film sulla mafia, di primo ministro di un imbarazzante governo garantista con rispettabili colletti bianchi in odor di mafia e repressore senza pietà della criminalità organizzata. E per questo è difficile abbandonarsi completamente alle belle immagini del film di Tornatore. Ma nonostante tutto bisogna provarci. Come detto, sono tante le bandiere rosse riprese in questo "kolossal d'autore", "kolossal minimalista", "commedia epica", "affresco collettivo" (scegliete voi la definizione che più vi aggrada), in cui la mafia "è sullo sfondo ma incombe su tutto", come ha scritto Alberto Crespi su L'Unità. Baària ci racconta cinquant'anni di vita (dagli anni '30 agli anni '80) del contadino comunista Peppino Torrenuova (Francesco Scianna). La sua vita attraversa la storia siciliana del dopoguerra, storia buia e torbida del nostro dopoguerra, alba di una democrazia mai pienamente espletatasi nei suoi oltre sessant'anni di vita. Quella era un'epoca in cui l'isola era terra che vedeva i vagiti di giustizia sociale venir repressi da una mafia al servizio di una strategia della tensione ante litteram, ma nel pieno delle sue funzioni anticomuniste e reazionarie.
Tornatore si immerge in quel clima, regalandoci sì splendide sequenze, ma irritandoci anche con altre messe in scena pruriginose e fastidiose. Ci emoziona con la marcia silenziosa dei comunisti listati a lutto in ricordo dei morti di Portella della Ginestra. Riempie i nostri occhi quando cita il Germi di In nome della legge (1948) con gabellotti mafiosi a cavallo che assalgono i contadini durante l'occupazione delle terre. Ma ci infastidice oltre modo quando un barbuto giornalista del Nord (Raoul Bova!, uno dei tanti cammei del film) si reca in Sicilia per raccontare la terribile serie di morti violente di sindacalisti e militanti social-comunisti del dopoguerra. Nel frattempo veniamo sballottati fra una storia sociale e una storia intima e familiare, ritrovandoci a capir poco l'essenza della militanza comunista e antimafiosa di Peppino Torrenuova, destinate a rimanere nel racconto immaginato da Tornatore un accessorio alla sua egocentrica autorialità. Autorialità che si fa strabordante quando la sua macchina da presa subisce insolazioni da sole siculo, mostrandosi incapace di graffiare l'immaginario collettivo, nonostante artigli costosissimi e ben affilati.

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