L’Uruguay, classificatosi al quarto posto nell’ultimo mondiale di Sudafrica 2010, è anche fra le prime quattro migliori nazionali del Sudamerica, dopo aver eliminato i padroni di casa dell’Argentina allenata da Sergio Batista. Un'Argentina che ha vinto solo uno dei quattro incontri disputati, battendo il Costa Rica per 3 a 0. I tempi regolamentari sono terminati per 1 a 1. In vantaggio gli uruguagi con Pérez al 5’ (poi espulso al 39’), pareggio di Higuaín al 18’, servito da un Messi finalmente ispirato. Ma non è bastata la superiorità numerica per capovolgere il risultato. La sfida si è decisa dagli undici metri. Dei dieci rigori calciati, un solo errore, quello dell’argentino Tévez. Per l’Uruguay, rigore decisivo calciato da Cáceres. Gli uomini di Tabárez se la vedranno contro il sorprendente Perù che ha eliminato la Colombia. Per l’Argentina una sconfitta che sa di psicodramma.
Uruguay verso la gloria - A Montevideo, lato orientale del Río de la Plata, ieri spirava forte l’odore della Storia. Una storia vecchia di 61 anni, intitolata Maracanaço, ambientata a Río de Janeiro, nello stadio di calcio più famoso del mondo. Una storia che la grande letteratura ha consegnato alla leggenda, con il malinconico Varela, Ghiggia e Schiaffino in festa e Moacir Barbosa, il portiere brasiliano, divenuto simbolo nobile della sconfitta, per un pallone di troppo in fondo al sacco. Tutto successe in novanta minuti, gloriosi per gli uruguagi, drammatici e traumatici per i brasiliani. Ieri invece ci sono voluti 120 minuti e dieci rigori per vedere una storia antica, gloriosa, immortale spingere di nuovo l’Uruguay verso i lidi della gloria. A disperarsi questa volta sono gli argentini, sempre più delusi, arrabbiati, tristi, frustrati. Gli orientali invece stanno crescendo. Un quarto posto ai mondiali di Sudafrica con un calcio bello, pratico e essenziale. Una finale di Libertadores persa con dignità dal Peñarol contro i brasiliani del Santos (Peñarol contro Santos, ovvero Varela - il re del centrocampo, El Negro Jefe - contro Pelé - O rey, La perla negra). Le suggestioni abbondano, mentre la gloria si va sistemando, fra un filo d’erba e un chicco di fango, nei tacchetti di Suárez e Forlan, sulla pelle ingrassata dei loro scarpini comodi e tecnologici, sulla saliva dei guanti di Muslera, nel sudore che sprizzano i muscoli dei centrocampisti, nella testa e nel sorriso laterale di Óscar Wáshington Tabárez, il Maestro. Chissà, forse la gloria vuole tornare a riempire le strade malinconiche di Montevideo, mischiarsi all’odore dell’asado del Mercado del Puerto, nei vicoli della fiera domenicale di Tristán Narvaja. Se sarà gloria, illusione, tristezza o onore lo sapremo fra qualche giorno. Comunque andrà, la musica di sottofondo mischierà come sempre le note di un bandoneón a una chitarra malinconica. E se qualcuno dormirà, i vibranti tamburi di una murga ossessiva lo sveglieranno.
Argentina, il baratro della depressione - Gli orgogliosi argentini forse non piangono, non è nel loro carattere. Non lo darebbero mai a vedere, ma si disperano, consumando bile ed energie nervose. Sono diventati specialisti di frustranti sconfitte, cocenti e paradigmatiche. Ne raccolgono una dopo l’altra ormai. Bolivia, Ecuador, Germania, Nigeria. Non importa cosa ci sia in palio. Prendono gol e fanno il solletico agli avversari. Li spaventano nel tunnel degli spogliatoi con le magliette elasticizzate che disegnano i loro petti muscolosi e gonfi di orgoglio. Si sentono lupi famelici, ma quando tocca vedere chi è il più forte, si ritrovano agnellini che masticano l’erba amara del prato verde. La loro pochezza tattica e temperamentale non è credibile. Fra le braccia dei vecchi e nuovi colonialisti forse si sentono più protetti e giunti ad Ezeiza si smarriscono. Sarà forse l’odore delle villas miserias o il grigiore dei monobloc che circondano il tragitto verso il centro di Buenos Aires a disorientarli? O forse nelle cuffie giganti dei loro piccoli I-pod risuonano le parole di Volver di Carlos Gardel e la malinconia li prende in ostaggio? Qualunque sia il motivo, questi campioni in Europa e brocchi in patria, saranno ricordati come una generazione di calciatori che ancora non hanno conosciuto il sapore della vittoria con la maglia della nazionale. Il popolo fútbolero sarà sempre innamorato della maglia albiceleste, ma è ogni giorno più stanco, più deluso, più fiaccato. Il Messico è lontano un quarto di secolo, l’Ecuador dell’ultima Coppa America diciotto anni. Gli argentini ormai conoscono solo l’amaro della sconfitta, una sconfitta che vive dei propri demeriti e delle proprie ingannevoli certezze. Da romanzare c’è tanto, anche qui. Così forse capiremo come mai, piedi buoni che illuminavano il gioco, cecchini infallibili sotto rete, arcigni difensori, centrocampisti dinamici e dalla buona visione di gioco – tutti elementi che non sono mancati all’Argentina di questi ultimi due decenni post-maradoniani – si siano ritrovati incapaci di darsi un’identità tecnica e caratteriale. Sul lato occidentale del grande fiume, toccherà quindi prima investigare. E anche molto, per consegnare alla storia il romanzo di una delusione continua e costante. Un romanzo le cui pagine scorreranno anche qui a ritmo di tango e murga, folklore e cumbia. Note che avranno il sapore di una marcia funebre. Perché gli orgogliosi argentini hanno gettato nel baratro della depressione il corpo agonizzante della selección.
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