È la sera di venerdì 23 maggio 2025 quando allo Stadio Diego Armando Maradona di Napoli, nella curva B – quella raccontata da Nino D’Angelo a metà degli anni ’80 tra musica e film – appare una tela disegnata. Un drappo che si offre ad una schiera infinita di obiettivi che riverberano in tutto il mondo quell’immagine creata con l’intelligenza artificiale. Ancora qualche secondo e, dopo una lenta ed inesorabile dissolvenza di occhi e telecamere che sposta l’attenzione verso il centro del campo, l’attesa può avere fine. Il Napoli di Antonio Conte, emigrante salentino di ritorno al Sud, è finalmente pronto a scendere in campo contro il Cagliari in vista dell’ultima gara della stagione, decisiva per la vittoria del campionato.
In quegli stessi istanti l’Inter, campione d’Italia in carica, tenta inutilmente di difendere il titolo della seconda stella nella manzoniana Como. I tifosi azzurri hanno deciso di accogliere così la squadra, con una narrazione visiva di sapore ottocentesco che vede al centro della scena due bambini che corrono lungo un vicolo. Il co-protagonista di sinistra – con indosso una maglietta nerazzurra bucata all’altezza del petto – cerca di fuggire. Il protagonista di destra – sorridente, vestito di una maglietta azzurra con il simbolo del Napoli calcio, uno scudetto tricolore nella mano sinistra – lo raggiunge e gli strappa lo scudetto dal petto con le dita libere.
Per chi mastica di calcio e letteratura – con il consapevole rischio di risultare artefatti – quegli scugnizzi possono essere letti come la traduzione in immagine dell’utopia uruguagia tendente all’infinito di Eduardo Galeano o la rappresentazione sacra della modernità (novecentesca) vista ancora oggi con gli occhi di Pier Paolo Pasolini. Ma sono anche – chi potrebbe negarlo? – il (ri)portare in superficie la centralità del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza.
Poco più di un mese fa, il World Press Photo 2025 è stato assegnato alla fotografa palestinese Samar Abu Elouf capace di raccontare, in uno scatto caravaggesco, il dramma di Mahmoud Ajjour – bambino, nove anni – costretto a vivere il resto della sua vita senza braccia grazie ad un bombardamento israeliano. E non sembra un caso che don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli e cardinale per nomina del futbolero Papa Bergoglio, nel salutare il successo degli azzurri come un «canto collettivo» e una «danza popolare», abbia ricollocato Napoli al centro del Mediterraneo rivolgendo uno sguardo a Gaza, alle sue «vittime», ai suoi «ostaggi», ai suoi «bambini».
Il Napoli calcio ha poi vissuto la stagione legando il proprio stato d’animo alla figura di Daniele Pisco – bambino, tredici anni – morto a causa di una leucemia nel mese di gennaio. Sul bus della squadra che ha sfilato sul lungomare cittadino lo scorso lunedì davanti ad un popolo ebbro di gioia, insieme ad una bandiera della pace c’era un vessillo con l’immagine del piccolo a cui si era particolarmente legato il calciatore Frank Anguissa. I bambini, le criature, gli scugnizzi in un modo o nell’altro, ancora una volta epicentro narrativo, sismografi del nostro stato di salute. Dalla fine dell’Ottocento ad oggi, passando per il lungo secolo breve. Come in uno scritto di Ferdinando Russo, il primo a mettere nero su bianco quella parola figlia del verbo scugnare (scalfire, rompere), o nella rumba di Raffaele Viviani. Come nel cinema neorealista, con i suoi drammi e il desiderio di lavare i panni sporchi con una macchina da presa. Come nei folgoranti scatti bianco-e-nero di Mimmo Jodice. Come nell’ultimo articolo di Giancarlo Siani, cronista abusivo ucciso da piombo mafioso-e-camorrista, in cui si trasformavano in muschilli (moscerini) al servizio dei signori della droga, per diventare poi scimmie con le opere di Alessandro Gallo, attore-autore capace di liberarsi dal malessere camorrista. Come nell’eterna utopia del riscatto maradoniano, nei perturbanti film di Antonio Capuano, in una poetica canzone di Nino D’Angelo (‘O Speniello, Ciucculatina d’a Ferrovia, Odio e lacrime), nel Bronx napoletano di Peppe Lanzetta dove gli scugnizzi diventavano «drogate» o nel mare guasto di Maurizio Braucci.
Fino ad arrivare alle paranze-dei-bambini che Roberto Saviano e Claudio Giovannesi avrebbero raccontato tra carta e grande schermo o alle vite di scarto in attesa del mare fuori. Come nelle cronache di questi ultimi maledetti anni, mesi, giorni in cui tanti ragazzi – armati-e/o-disarmati, ed a quell’età dovremmo interrogarci ogni giorno di più sul valore reale-e-simbolico di questa differenza che forse potrebbe unire – hanno perso la loro vita in maniera violenta a Napoli e dintorni.
Nonostante nomi di battesimo – Arcangelo (capo supremo degli angeli), Emanuele (Dio con noi), Francesco Pio (i nomi del frate di Pietrelcina), Giovanni Battista (dono di Dio e colui che battezza), Santo (non servono definizioni e sinonimi), l’elenco potrebbe non essere esaustivo – che sembravano promettere una vita serena. Con lo sguardo verso il futuro. In avanti.
*L'articolo è stato pubblicato sabato 31 maggio 2025 su Alias-Il Manifesto.
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