L'articolo è apparso sulla rivista Questione Giustizia.
Per raccontare Anime nere di Francesco Munzi - tratto dall'omonimo romanzo di Gioacchino Criaco (Rubbettino Editore), presentato all'ultimo Festival di Venezia e da qualche settimana nelle sale italiane - partiamo da questa immagine. Provate a creare nel vostro salotto una videoteca di film dedicati alla mafia, alle camorre e alla 'ndrangheta. Vi accorgereste subito che Cosa Nostra e camorra la farebbero da padrone, relegando le opere audiovisive dedicate al sodalizio mafioso calabrese in un modesto cantuccio.
Nella storia del nostro cinema è andata così. La mafia ha dominato, grazie anche alle opere romanzesche (Sciascia su tutti) divenute poi film. La camorra si è ritagliata progressivamente un po' di considerazione da parte di registi e sceneggiatori fino all'esplosione di Gomorra (2008). Per la 'ndrangheta calabrese è andata diversamente: al cinema italiano non è mai piaciuta più di tanto.
Errore di sottovalutazione, di mancata messa a fuoco di un fenomeno percepito come straccione e pastorale, rintanato fra le grotte dell'Aspromonte. Il mancato scontro frontale con lo Stato, il basso (ma non irrilevante) numero di pentiti, la lontananza dai clamori mediatici hanno fatto il resto, consegnandoci negli anni un fenomeno poco conosciuto. Ma qualcosa recentemente è cambiato. E questo qualcosa si chiama omicidio Fortugno (2005), strage di Duisburg (2007) e atti intimidatori alle procure calabresi. Sono questi i momenti che impongono la 'ndrangheta nell'agenda mediatica del Paese e della stampa internazionale. Materia che involontariamente ha fatto da concime al seme di Anime nere, il profondo e duro film di Francesco Munzi.
Anime nere è la storia di tre fratelli. Il padre era un pastore dell'Aspromonte ucciso in una faida fra famiglie. Luigi e Rocco vivono a Milano. Il primo gira l'Europa stringendo accordi con narcotrafficanti sudamericani e si gode la vita. L'altro ricicla i soldi del fratello e vive in un interno borghese con moglie e figlia. Luciano è rimasto in Calabria ad occuparsi della terra e degli animali. Conduce una vita dimessa e ha di che penare con il figlio Leo, aspirante malavitoso che non vede l'ora di andare dagli zii di Milano e diventare uno di loro. Zio Rocco e Zio Luigi sono i modelli vincenti. Di suo padre nessuna stima e considerazione.
Quando il ragazzo scappa a Milano in cerca di un futuro, la Calabria sembra destinata a rimanere marginale nello sviluppo della narrazione. Leo diventerà picciotto bonu, zio Luigi gli farà conoscere i piaceri della città e zio Rocco lo inviterà a non correre troppo, ricordandogli di portare rispetto per suo padre. Ed invece progressivamente la modernità dei grattacieli di Milano e delle atmosfere europee scomparirà. A dominare sarà il cuore duro della Calabria, illuminata da un sole di metallo.
Gli affari si fanno in tutto il mondo, ma la questione che accomuna i tre fratelli va risolta al paese. Lì vanno chiusi i conti con la famiglia rivale. Ed è questo il momento in cui il film si tinge di nero, diventando tragedia. E lì che Munzi dà il meglio di sé, penetrando chirurgicamente nell'animo, nella psicologia e nell'antropologia dei personaggi. Qui conosciamo la famiglia di origine, i suoi usi e i suoi costumi. Una cultura fatta di ambiguo antistatalismo, insofferente verso le forze di polizia ma connivente con la politica.
Un'antropologia in cui l'onore e il rispetto strumentali al mantenimento del potere si manifestano dolorosamente. Qui conosciamo il contesto in cui tutto ha avuto origine. Qui si scontra l'immagine realistica di una malavita globalizzata con quella che sente ancora battere il proprio cuore in un'atmosfera arcaica e pre-moderna. È qui che il male è ineluttabile, il dolore fatalmente trionfante.
In un paese immaginario dell'Aspromonte il passato irrisolto attanaglia il destino dei protagonisti lungo i sentieri del dolore. Realmente siamo ad Africo, un paesino di montagna che un'alluvione spazzò via e costrinse i suoi abitanti a inventare una nuova vita in riva al mare. Alla storia di Africo, Corrado Stajano dedicò nel 1978 un intenso libro-reportage. Ad Africo Munzi ha dato nuovo senso alle pagine di Criaco, convinto di una cosa: "Da Africo si può vedere meglio l'Italia".
Nella storia del nostro cinema è andata così. La mafia ha dominato, grazie anche alle opere romanzesche (Sciascia su tutti) divenute poi film. La camorra si è ritagliata progressivamente un po' di considerazione da parte di registi e sceneggiatori fino all'esplosione di Gomorra (2008). Per la 'ndrangheta calabrese è andata diversamente: al cinema italiano non è mai piaciuta più di tanto.
Errore di sottovalutazione, di mancata messa a fuoco di un fenomeno percepito come straccione e pastorale, rintanato fra le grotte dell'Aspromonte. Il mancato scontro frontale con lo Stato, il basso (ma non irrilevante) numero di pentiti, la lontananza dai clamori mediatici hanno fatto il resto, consegnandoci negli anni un fenomeno poco conosciuto. Ma qualcosa recentemente è cambiato. E questo qualcosa si chiama omicidio Fortugno (2005), strage di Duisburg (2007) e atti intimidatori alle procure calabresi. Sono questi i momenti che impongono la 'ndrangheta nell'agenda mediatica del Paese e della stampa internazionale. Materia che involontariamente ha fatto da concime al seme di Anime nere, il profondo e duro film di Francesco Munzi.
Anime nere è la storia di tre fratelli. Il padre era un pastore dell'Aspromonte ucciso in una faida fra famiglie. Luigi e Rocco vivono a Milano. Il primo gira l'Europa stringendo accordi con narcotrafficanti sudamericani e si gode la vita. L'altro ricicla i soldi del fratello e vive in un interno borghese con moglie e figlia. Luciano è rimasto in Calabria ad occuparsi della terra e degli animali. Conduce una vita dimessa e ha di che penare con il figlio Leo, aspirante malavitoso che non vede l'ora di andare dagli zii di Milano e diventare uno di loro. Zio Rocco e Zio Luigi sono i modelli vincenti. Di suo padre nessuna stima e considerazione.
Quando il ragazzo scappa a Milano in cerca di un futuro, la Calabria sembra destinata a rimanere marginale nello sviluppo della narrazione. Leo diventerà picciotto bonu, zio Luigi gli farà conoscere i piaceri della città e zio Rocco lo inviterà a non correre troppo, ricordandogli di portare rispetto per suo padre. Ed invece progressivamente la modernità dei grattacieli di Milano e delle atmosfere europee scomparirà. A dominare sarà il cuore duro della Calabria, illuminata da un sole di metallo.
Gli affari si fanno in tutto il mondo, ma la questione che accomuna i tre fratelli va risolta al paese. Lì vanno chiusi i conti con la famiglia rivale. Ed è questo il momento in cui il film si tinge di nero, diventando tragedia. E lì che Munzi dà il meglio di sé, penetrando chirurgicamente nell'animo, nella psicologia e nell'antropologia dei personaggi. Qui conosciamo la famiglia di origine, i suoi usi e i suoi costumi. Una cultura fatta di ambiguo antistatalismo, insofferente verso le forze di polizia ma connivente con la politica.
Un'antropologia in cui l'onore e il rispetto strumentali al mantenimento del potere si manifestano dolorosamente. Qui conosciamo il contesto in cui tutto ha avuto origine. Qui si scontra l'immagine realistica di una malavita globalizzata con quella che sente ancora battere il proprio cuore in un'atmosfera arcaica e pre-moderna. È qui che il male è ineluttabile, il dolore fatalmente trionfante.
In un paese immaginario dell'Aspromonte il passato irrisolto attanaglia il destino dei protagonisti lungo i sentieri del dolore. Realmente siamo ad Africo, un paesino di montagna che un'alluvione spazzò via e costrinse i suoi abitanti a inventare una nuova vita in riva al mare. Alla storia di Africo, Corrado Stajano dedicò nel 1978 un intenso libro-reportage. Ad Africo Munzi ha dato nuovo senso alle pagine di Criaco, convinto di una cosa: "Da Africo si può vedere meglio l'Italia".
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