L'articolo è apparso su Il Napolista
17 ottobre 1982. Esattamente 32 anni fa. Giorno più, giorno meno.
Prima parte del campionato, Inter e Napoli pareggiano 2-2. E in quei
giorni sì che un punto al Meazza profuma di oro e diamanti. I numeri a
volte parlano, ma quasi sempre hanno bisogno di essere interpretati. Il
2-2 di domenica sa di immaturità, nervi poco saldi, scarsa
concentrazione. Quello di allora, in epoca pre-maradoniana, ha ancora il
gusto del miracolo e della fierezza. Ma quella partita è passata alla
storia per altri motivi e la cronaca dei 90 minuti c'entra fino a un
certo punto. Anzi quei quattro gol sono il particolare molto
trascurabile di una storia molto più grande. Protagonista Beppe Viola
detto Pepinoeu - giornalista, 43 anni portati con la serietà
dell'umorista, «nato per sentire gli angeli» ma costretto a «frequentare
i bordelli», parola di Gianni Brera - che quel giorno, dopo aver
chiesto all'allenatore partenopeo Giacomini se il migliore in campo
fosse stato San Gennaro, morì sul lavoro. Davanti ad uno schermo. In una
sala montaggio della Rai di Milano.
Una emorragia celebrale lo
colpì, mentre c'era ancora da raccontare per intero la partita che gli
italiani avevano ascoltato alla radio. Bisognava ancora dare senso compiuto ai gol mundial di Oriali e Spillo Altobelli, l'orgoglio finale dei partenopei nei piedi di Criscimanni e Marino. Ma
non ci fu tempo. Beppe spirò poi in ospedale. Il suo cuore in parte
meridionale - un nonno veniva dall'entroterra salernitano - smise di
battere. Ma era stata la testa a tradirlo. Lui, che con le emicranie
conviveva, aveva raccontato il calcio agli italiani con ingegno e senza
timidezza. La sua voce - a prima vista svogliata, distaccata, senza
ritmo - era al nobile servizio di un punto di vista sul mondo che
graffiava, lasciava segni e a volte inquietava.
Nei primi anni '70, fu capace di trasformare Rivera in un malinconico personaggio sull'orlo del tramonto nella toccante Vincenzina e la fabbrica scritta con Jannacci ("...0-0 anche ieri 'sto Milan qui, sto Rivera che ormai non mi gioca più"). Poi, costringendo il golden boy
al suo microfono mentre il tram n. 15 attraversava Milano con tanto di
vita meneghina al seguito, firmerà insieme a lui una pagina indimenticabile di giornalismo televisivo.
Viola era testimone
illuminato della vita. Respirava il suo tempo con vigore, riscrivendolo
con accortezza e ironia. I fortunati esordi di Franco Baresi in maglia
rossonera, diventarono una delle più beffarde chiose sulla strategia
della tensione, che proprio a Milano aveva mosso i primi passi. Era la
stagione 1978-1979. I diavoli allenati da Liedholm vinceranno il decimo
scudetto, quello della stella. Di Baresi, grande protagonista di
quell'annata, Viola parlerà così. «È, dicono, il miglior libero d'Italia. Esclusi, naturalmente, Freda e Ventura», neofascisti imputati
per la strage di Piazza Fontana.
Aveva rispetto per il pubblico, Beppe. Un riguardo e un'attenzione tali da imporre ai suoi colleghi della rivista Magazine multe
in caso di utilizzo di espressioni abusate (oggi, i vari "pazzesco",
"ancora lui", "incredibile", le asfissianti telecronache dal flusso
continuo ed ininterrotto equivarrebbero a scomuniche). Un senso della
bellezza da onorare sempre e comunque tanto da nascondere agli occhi dei
telespettatori le immagini di un triste e scolorito derby milanese, in
cui i portieri avevano fatto da spettatori. Quella volta Viola parlò di
«derbycidio» e mostrò le immagini più appassionanti di una vecchia
stracittadina. La notizia era stata comunque data. Il dato rispettato.
La realtà non travisata. Era stato oggettivo Pepinoeu. Ciò che
ai suoi occhi era privo di senso, non era stato esibito. Questa è forse
la più grande lezione che ci ha lasciato. E scrivere di lui dopo la
partita di domenica non è nostalgia né un'operazione ricordo. La
malinconia può uccidere. La memoria può stancare, rendendo sterile ciò
che è stato. In questo caso, c'è soltanto un nobile passato da onorare e
far rivivere. Hic et nunc. Senza appello.
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