La recensione scritta da Umberto Santino è apparsa su La Repubblica - Edizione di Palermo (21 gennaio 2015, pagina IX) ed è disponibile anche a questo link.
A conclusione di un suo scritto sulla Sicilia nel cinema, del 1963, Leonardo Sciascia scriveva dopo aver visto un film sulla mafia: "Lo spettatore è portato a chiedersi non più che cosa è la mafia, ma che cosa la mafia non è" e, allargando il discorso: "che cosa la Sicilia non è". Il riferimento era al film Il mafioso di Alberto Lattuada, con Alberto Sordi, del 1962, in cui tutto era o si rapportava alla mafia e lo scrittore, che era solito avvertire: "se tutto è mafia, niente è mafia", riteneva fuorviante dare un'immagine totalizzante del fenomeno mafioso. Sempre a proposito di Sicilia e mafia al cinema, il critico Vittorio Albano, scomparso nel 2003, scriveva che la Sicilia è la regione italiana più privilegiata dallo schermo, con la parte del leone accaparrata dalla filmografia sulla mafia, e si chiedeva: è un privilegio o un sorta di "sfruttamento continuato ed aggravato (tranne solitarie eccezioni) della cultura, delle tradizioni, dei problemi e dei più appariscenti fenomeni di costume isolani "? La Sicilia non rischia di passare per una "colonia" frequentata da mercanti che pensano solo a speculazioni commerciali? Albano non era di questo parere: in definitiva la Sicilia può ritenersi fortunata se è stata "scoperta" da registi non siciliani come Germi, Rosi, Visconti, Lattuada, dai fratelli Taviani e da Amelio e se negli ultimi anni ha visto affermarsi nomi nuovi, e questa volta di siciliani, come Tornatore e Ciprì e Maresco.
Queste considerazioni ci portano a un interrogativo: nella rappresentazione della mafia che funzione ha avuto il cinema? E la televisione? E sono queste le domande che si pone il libro di Andrea Meccia, Mediamafia. Cosa Nostra fra cinema e TV (Di Girolamo Editore). Si può dire che il cinema abbia riflesso il sentire comune o di gran parte della popolazione, o quello di una minoranza illuminata, o l'abbia influenzato, rafforzato se non costruito? Nel cinema si riflettono le idee e le rappresentazioni che circolano a vari livelli, nel cosiddetto immaginario collettivo: gli stereotipi più sedimentati e le analisi più avvedute, le apologie e le ripulse, le complicità e le sfide, una lunga storia di violenze e di lotte che s'intreccia con quella di una comunità e di una nazione. Più dei libri, film e sceneggiati televisivi diventano strumenti di conoscenza o di informazione, ma per lo più scavano dentro miniere di stereotipi.
Così abbiamo assistito al profilarsi di una storia del cinema di mafia che ricalca, o rafforza, le idee correnti o cerca di andare controcorrente. La favola romantica di una mafia di "uomini d'onore", con i loro codici e le loro sanzioni ma pronta a sottomettersi alla legge, come avviene nel film di Germi In nome della Legge, del 1949; il cinema apologetico che decanta la mafia come erede e custode della Tradition, in un mondo senza valori e senza punti di riferimento, e l'esempio più noto è Il Padrino di Coppola; il cinema d'inchiesta e di impegno civile che ricostruisce legami e complicità e cerca di venir a capo di misteri troppo a lungo coltivati come insondabili e inspiegabili: una sequenza che va dal Salvatore Giuliano di FrancescoRosi a I cento passi di Marco Tullio Giordana. O il cinema satirico che usa il dileggio e l'irrisione come forma di demistificazione e di destrutturazione del rispetto e della sudditanza. Qualche esempio: Johnny Stecchino di Benigni(1991), Pallottole a Broadway di Woody Allen (1994). e le più recenti prove di Roberta Torre e di Pif.
Ora a ridere della mafia ci provano in tanti, ma vorrei ricordare che la Onda pazza di Peppino Impastato fu considerata un atto di lesa maestà e la mia Modesta (o ragionevole) proposta per pacificare la città di Palermo, scritta nel 1983, dopo la strage di via Pipitone Federico, suscitò reazioni della serie: "di certe cose non si ride", come se si fosse violato un tabù. Negli ultimi anni il "discorso" sulla mafia è stato affidato soprattutto alla televisione. Dal 1984 al 2003 sulla Rai va in onda La piovra, lo sceneggiato televisivo più seguito ed esportato. Lo scontro è tra una mafia onnipotente, onnipresente, e il commissario Cattani, e dopo la sua uccisione la giudice Silvia Conti. Come dire: un gioco a guardia e ladri, con una guardia supereroica contro una banda di spietati delinquenti. Ritorna "l'ingrossamento", di cui parlava ai primordi del cinema Giovanni Verga, come semplificazione e manipolazione della realtà, e si ripropone il "tutto è mafia" di Sciascia, ingigantito e globalizzato. Sulle televisioni berlusconiane sono stati trasmessi Il capo dei capi (2007) e L'ultimo padrino (2008) che presentano i capimafia come eroi che riscuotono la simpatia degli spettatori. Un'insegnante di una scuola in cui da molti anni si svolgono iniziative antimafia segnala che i ragazzi nei loro giochi volevano tutti fare la parte dei mafiosi e disdegnavano quelle dei poliziotti. Il libro di Meccia traccia una storia della mafia e una storia del cinema di mafia e della rappresentazione televisiva ed è uno strumento utile per orientarsi nel mondo delle iconizzazioni degli ultimi anni, anche quando, o forse soprattutto quando, pone problemi e suscita interrogativi.
La mafia negli ultimi anni ha avuto una mutazione antropologica o vale pur sempre il modello che coniuga continuità e innovazione? C'è stato un salto di qualità dello Stato nel contrasto alla mafia? Certamente c'è stata una risposta ai grandi delitti e alle stragi, con la legge antimafia (1982), gli arresti, i processi e le condanne, ma sempre nella logica dell'emergenza, cioè della risposta alla delittuosità, e lo smantellamento del pool, l'isolamento di Falcone e Borsellino, non sono accaduti per caso. Opportune e condivisibili perciò le riflessioni sullo stereotipo della mafia antistato, che ignora la complessità dei rapporti tra mafia e istituzioni, e le pagine sullo Stato-Penelope che fa e disfa la tela dell'antimafia istituzionale. E le schede sui film, da Cadaveri eccellenti di Rosi (1976) a La mafia uccide solo d'estate di Pif (2013) offrono un repertorio significativo della filmografia degli ultimi anni e gli incontri con Letizia Battaglia e Roberto Scarpinato, dando voce a esperienze sul campo, ci restituiscono il vissuto di una stagione in cui molto sangue è stato versato e si è fatta strada una coscienza civile, nonostante incertezze e delusioni.
UMBERTO SANTINO
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