Oggi Letizia Battaglia
compie 80 anni. Letizia viene ricordata come "la fotografa della
mafia", la testimone diretta della violenza mafiosa negli anni '70 ed
'80. Eppure quando la mafia fece a pezzettini Chinnici, Falcone,
Borsellino e gli uomini delle loro scorte, Letizia foto non ne fece. Non
riuscì a fare click davanti a quell'orrore, di fronte alla sensazione
della sconfitta di una città, di una regione, di un Paese. Auguri a
questa grande donna che abbiamo avuto il
piacere di ospitare nel nostro libro con una intensa intervista. In un
Paese che ama i tintinnii di manette come risposta alla rabbia di fronte
ai fenomeni criminali e corruttivi, lei, in questo passo, ci ha
regalato una grande lezione libertaria. Parole difficili da chiosare,
parole da conservare, da leggere e rileggere con attenzione. Parole su
cui riflettere.
R: Cosa voleva dire invece fotografare in quegli anni un mafioso nelle mani dello Stato? Intanto voleva dire tremare lungo tutto il percorso che ti avrebbe condotto alla questura o in una caserma. Poi, una volta sul posto, bisognava attendere per lunghe ore l’arrivo del mafioso nelle mani delle forze dell’ordine. L’attesa era snervante. L’ansia di sbagliare la messa a fuoco, il tempo di esposizione o di avere problemi tecnici (io ne avevo sempre con il flash) potevano così prendere il sopravvento. Spesso le mie foto erano mosse, perché scattate in momenti fortemente emotivi. A parte i problemi contingenti, fotografare un mafioso voleva dire caricarsi di coraggio, perché erano e sono persone che incutono timore e paura anche con le manette ai polsi. Il fatto che fossi donna, in questo caso, non c’entrava nulla. Anzi, devo dire che ho sempre avuto più coraggio dei miei colleghi uomini. Per molti di loro, non quelli del mio gruppo, fare foto era un mestiere per vivere non uno strumento di lotta e militanza. Devo ammettere che ho avuto problemi veri e reali nel puntare il mio obiettivo contro le persone ammanettate. Era doveroso documentare quelle situazioni, ma il tutto mi faceva stare male. Mi sembrava una vigliaccata riprendere un uomo stretto fra due o più poliziotti. Lo sentivo come un abuso vero, ma, ripeto, dovevo farlo ed era giusto che lo facessi. Conservo delle foto molto dure con mafiosi in manette e posso così raccontare ancora oggi il loro viso, il loro sguardo, la loro voglia di potere, il loro non rispetto verso la vita.
Tratto da Mediamafia. Cosa Nostra fra cinema e TV, Andrea Meccia, Di Girolamo Editore, pp. 164-165
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