È giusto chiedere le dimissioni di Bruno Vespa. È giusto indignarsi per la
presenza di Riina junior nel salotto di Porta a Porta. È altrettanto giusto chiedere una
informazione diversa. Ma è molto più importante immaginare nuove forme di
racconto, narrazioni che al di là dei contenuti sappiano anche mettere in scena
se stesse, coniugando le une e trine esigenze del servizio pubblico: informare,
educare, intrattenere. E ci sono spazi del servizio pubblico che queste cose le sa fare (vedi Rai Storia). Perché la guerra dei contenuti a volte è una battaglia
senza senso. Basterà invitare in quello stesso spazio il figlio di una vittima
di mafia, un magistrato sotto scorta, un poliziotto coraggioso, il presidente
di una associazione antimafia per lavarsi la coscienza e dire che sulla Tv pubblica
c'è spazio per tutti. E invece no, il problema più grande della messa in scena
del giornalismo televisivo, è che siano spariti gli elementi scenografici e di
costruzione dello spazio che lo contraddistinguono (quella che Edward T. Hall
chiamava prossemica). Ma soprattutto basterebbe un elemento in più da mettere
addosso al giornalista: il suo taccuino. Oggetto che non tutti indossano.
Basterebbe tenerlo fra le mani con dignità e spirito di servizio, in modo da sottolineare ruolo e distanza, che in prima
serata potremo fare una tavola rotonda con Adolf Hitler e i gerarchi nazisti.
«Fútbol y Patria». «Peronistas, Populistas y Plebeyos». «Historia mínima del fútbol en América Latina». Questi sono solo tre titoli di una ricca produzione saggistica fatta di cronache politico-culturali e indagini sociologiche e letterarie. Chi vuole sapere di calcio e cultura popolare sudamericana deve passare per gli scritti di Pablo Alabarces e capirà qualcosa di cantanti mitologici come Palito Ortega, rock, tifoserie, sistema mediatico, violenza da stadio. Sociologo, argentino classe 1961, Alabarces è titolare di cattedra presso la UBA, l’Università di Buenos Aires. Lo incontriamo a Roma, zona Stazione Termini. Pablo è da poco rientrato nella capitale al termine di un bel soggiorno in una Napoli ebbra di festa per lo scudetto e dopo aver visitato Viggianello, borgo della Basilicata ai piedi del Pollino. «È la quinta volta che sono in Italia. Non ero mai stato nel paese dove nel 1882 nacque Antonio Carmelo Oliveto, mio nonno materno», ci racconta mentre ci incamminiamo verso Piazza
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