Con il Pipita non sono mai stato tenero. Non ho mai amato la sua argentinità, ontologicamente differente da quella fatta di rabbia e sudore callejera. L’ho considerato un atleta ostaggio di velenosi vizi aristocratici e imperdonabili irascibilità piccolo-borghesi. Ma le sue lacrime di domenica hanno toccato le corde della malinconia. La sua reazione esecrabile e giustamente punita, unita all’espulsione di Sarri, putroppo è diventata fin da subito la pietra angolare attorno a cui sviluppare la narrazione della perdita dello scudetto del Napoli. A favore di una squadra, la Juventus, che respira e mostra con orgoglio tutta la cattiveria che solo la razza padrona conosce, una organizzazione societaria capace di modificare i destini di giocatori altrove destinati a carriere mediocri, trasformandoli in parvenu delle alte sfere del triste calcio di casa nostra. Nei giorni in cui il settentrionalizzato allenatore della nazionale dall’animo juventino è diviso fra la firma con una squadra inglese, l’imbarazzo del suo ruolo di commissario tecnico e l’onta di un processo, inutile paragonare l’episodio di Higuaín con quello di Bonucci. Quest'ultimo sarebbe quel giocatore di fronte al quale dovremmo sciacquarci la bocca quando buca le difese avversarie, e che meriterebbe per valori sportivi e agonistici professati una interdizione di carattere antropologico. Resta l’amarezza del tifoso che ha vissuto fino al maledetto pranzo di domenica una stagione entusiasmante fatta di un calcio delizioso, a metà fra prosa e poesia. Una stagione che va onorata fino in fondo con il sudore e la dignità che il grande sport conosce. Abbandonando le inutili polemiche che tanto hanno fatto male, regalando all’opinione pubblica l’immagine di una squadra dolente e poco concentrata su di sé, preoccupata e intimorita dallo strapotere avversario.
«Fútbol y Patria». «Peronistas, Populistas y Plebeyos». «Historia mínima del fútbol en América Latina». Questi sono solo tre titoli di una ricca produzione saggistica fatta di cronache politico-culturali e indagini sociologiche e letterarie. Chi vuole sapere di calcio e cultura popolare sudamericana deve passare per gli scritti di Pablo Alabarces e capirà qualcosa di cantanti mitologici come Palito Ortega, rock, tifoserie, sistema mediatico, violenza da stadio. Sociologo, argentino classe 1961, Alabarces è titolare di cattedra presso la UBA, l’Università di Buenos Aires. Lo incontriamo a Roma, zona Stazione Termini. Pablo è da poco rientrato nella capitale al termine di un bel soggiorno in una Napoli ebbra di festa per lo scudetto e dopo aver visitato Viggianello, borgo della Basilicata ai piedi del Pollino. «È la quinta volta che sono in Italia. Non ero mai stato nel paese dove nel 1882 nacque Antonio Carmelo Oliveto, mio nonno materno», ci racconta mentre ci incamminiamo verso Piazza
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