Famiglia Cristiana, a cui mio nonno era abbonato, mi ha chiesto delle dichiarazioni sul film-tv Felicia Impastato e Gomorra. Sono in ottima compagnia: il professore Nicaso e il procuratore Roberti. Non nascondo un pizzico di imbarazzo. L'articolo, firmato da Elisa Chiari, è del 13 maggio 2016.
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La seconda serie di Gomorra riaccende il dibattito sulla rappresentazione del male e sul rischio emulazione. Da Saviano a Roberti, da Meccia a Nicaso. Come la vedono quelli che ne capiscono.
Il tema c’è. C’è da un tempo lungo, almeno da quando Paolo Borsellino diceva: «Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene».
Anzi da prima: da quando Peppino Impastato ne parlava alla radio in un tempo in cui anche la parola mafia era tabù. (Né si può dire che il tabù sia passato, al Nord ancora si cerca di negare. il 112 maggio sono state confermate in Cassazione venti condanne del processo Minotauro contro la ‘Ndrangheta in Piemonte ma nessuno lo ha notato).
Il problema, però è anche un altro: parlarne come. La messa in onda di Felicia Impastato sulla Tv di Stato e di Gomorra su Sky - letture d'opposto segno - ha riproposto la questione non nuova, ma portata d'attualità dalla seconda serie di Gomorra, che la rappresentazione cinematografica possa farsi, anche involontariamente, veicolo dell’amplificazione della “mitologia” mafiosa: un rischio tanto più sentito in un tempo in cui attorno a Napoli sparge sangue una camorra di boss ragazzini.
Non è un tema recente: il cinema ha corso da sempre questo rischio di ammantare la negatività di fascino. La questione è delicata, perché – come giustamente ricorda Roberto Saviano - si presta a essere strumentalizzata da chi avrebbe interesse a far tornare il silenzio attorno ai fenomeni mafiosi, che notoriamente di silenzio si nutrono. E perché l’arte ha diritto alla sua libertà di espressione.
La storia del Padrino che del cinema sulla mafia è l’archetipo è in qualche modo emblematica per chi studia il riflesso della rappresentazione nella realtà. Lo spiega bene Antonio Nicaso docente di di Storia delle organizzazioni criminali alla scuola italiana del Middlebury College di Oakland in California e Cultura mafiosa e forza di simboli rituali e miti alla Queen’s University di Kingston in Canada: «C'è un fascino promosso da una rappresentazione discutibile. Il padrino è un grande film dal punto di vista cinematografico ma finisce per mitizzare il boss. All’inizio la mafia americana aveva fatto di tutto per ostacolarlo, ha imposto di non utilizzare il termine mafia, poi quando è uscito si sono immedesimati, hanno trovato funzionale la rappresentazione della vecchia mafia contro la nuova mafia, in cui la vecchia mafia veniva dipinta come quella del rispetto dell’onore, non compromessa con la droga, parsimoniosa nell’uso della violenza: una rappresentazione del tutto mistificatoria».
Oggi la questione si ripropone amplificata con le fiction, che finiscono a un pubblico anche meno avveduto di quello dei libri da cui sono tratte. Il rischio, mette in guardia Andrea Meccia, saggista, autore di Mediamafia, un saggio che affronta proprio il tema della rappresentazione della mafia tra cinema e Tv: «E' trasmettere una semplificazione d’opposto segno del reale. Da una parte in una lettura come quella della serie Gomorra si semplifica in negativo in direzione della mitologia della criminalità che si prende tutta la scena, senza un barlume di positività a farle da contraltare. Dall’altra parte, in una fiction in positivo nobile come quella dedicata a Felicia Impastato, si rischia soprattutto nella seconda parte di trasformare una vicenda che è stata corale – si pensi al ruolo dei compagni di Peppino e ai molti magistrati che si sono succeduti caparbiamente sul caso – in un atto di eroismo solitario. Felicia Impastato era una donna straordinaria, il suo impegno è stato eccezionale, ma non avrebbe avuto gli strumenti per affrontare tutto da sola. Anche il frettoloso attribuire la morte di Peppino a un attentato terroristico andato a male è difficile da capire senza ricordare il contesto storico che nella stessa giornata vedeva il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, senza collegare le idee di Peppino a quel quadro».
Se da un lato Meccia ricorda alla Tv di sapere e aver saputo fare di più e di meglio: «Rai Storia oggi, La Piovra di qualche anno fa sono la prova che si può fare una Tv di qualità restituendo al reale la sua complessità anche nella dimensione del piccolo schermo», dall’altro chiede agli spettatori di non accontentarsi: «Voglio essere fiducioso nel fatto che anche il pubblico televisivo, incuriosito da un film non se ne accontenti, voglia provare a capire di più: ma per consolidare la fiducia servirebbe che la scuola potesse occuparsi di più di far crescere senso critico, sarebbe importante che la lettura critica dei media diventasse sistematica e non solo, come troppo spesso accade, materia di progetti estemporanei».
In questo Meccia è in buona compagnia: Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, che da anni collabora con il settimanale Diario civile di Rai Storia, nel dire che «Non si può impedire che si facciano fiction - come la serie Gomorra - fatte anche bene dal punto di vista della rappresentazione realistica del fenomeno», ricorda che «ci vorrebbero poi gli strumenti critici per evitare che queste immagini, queste scene, facciano presa in senso emulativo sui giovani». Strumenti critici che, ripete sempre, si possono costruire solo dando: più scuola, più sport, in definitiva, più Stato.
salve Meccia, Turrini fattoquotidiano.it la sto cercando. davideturrini@gmail.com (è urgente :-) grazie. DT
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