La recensione è stata pubblicata su Questione Giustizia
Se La verità sta in cielo fosse una docu-fiction targata Rai da mandare in prima serata, se al termine della visione, un giornalista armato di taccuino intervistasse il regista Roberto Faenza e i suoi collaboratori in uno studio TV, facendosi raccontare un po’ la genesi, lo sviluppo, la realizzazione, la tesi di questo interessante film, qualcos’altro si smuoverebbe intorno al caso di Emanuela Orlandi? Per adesso, il lavoro di Faenza sulla vicenda della cittadina vaticana desaparecida a Roma un pomeriggio d’estate del 1983, è “soltanto” un dignitoso film, cinematograficamente non entusiasmante, ma onesto, prezioso e carico di passione.
Se La verità sta in cielo fosse una docu-fiction targata Rai da mandare in prima serata, se al termine della visione, un giornalista armato di taccuino intervistasse il regista Roberto Faenza e i suoi collaboratori in uno studio TV, facendosi raccontare un po’ la genesi, lo sviluppo, la realizzazione, la tesi di questo interessante film, qualcos’altro si smuoverebbe intorno al caso di Emanuela Orlandi? Per adesso, il lavoro di Faenza sulla vicenda della cittadina vaticana desaparecida a Roma un pomeriggio d’estate del 1983, è “soltanto” un dignitoso film, cinematograficamente non entusiasmante, ma onesto, prezioso e carico di passione.
Il cinema italiano di inchiesta – di cui Francesco Rosi è stato
maestro inarrivabile - ha sempre dato i suoi risultati migliori quando,
reinventando i dolorosi eventi che hanno segnato la stagione
repubblicana, non pretendeva di ricostruire didascalicamente i fatti e
non offriva all’opinione pubblica verità facilmente digeribili. Quel
tipo di cinema ha trionfato, quando sapeva dare allo spettatore
ulteriori elementi di dubbio, quando scatenava domande alimentando la
sete di verità. Laddove ha scelto di raccontare gli eventi partendo da
tesi ben definite e chiaramente esplicitate, i film ne hanno sempre
risentito dal punto di vista artistico, ma hanno avuto ragione di
esistere anche in virtù della passione politico-civile che li
accompagnava. Un esempio per tutti, il cinema militante di Giuseppe
Ferrara.
La verità sta in cielo, figlio naturale e legittimo di
questi tempi liquidi, non può che collocarsi a metà strada fra queste
due tendenze. Per ragioni politiche da un lato, per scelte estetiche
dall’altro. Con un linguaggio e una messa in scena poco cinematografica,
Faenza si avvicina di più ai canoni e ai ritmi estetici di una buona Tv
moderna. Non lo fa con eleganza e raffinatezza travolgenti, ma con una
mano sicura, abile, che sa ciò che vuole, pronta a solcare un mare che
può improvvisamente diventare tempestoso.
Faenza racconta la vicenda Orlandi con i piedi ben piantati nella
contemporaneità. La questione “Mafia capitale”, le gesta di Massimo
Carminati e il pontificato di Papa Francesco sono il punto di partenza
di un flash-back di una storia iniziata trentatré anni fa, al crepuscolo
della Guerra Fredda, nei primi anni di pontificato di Karol Woytila,
mentre a Roma lo scettro del potere criminale è nelle mani deli ragazzi brutti, sporchi e cattivi della Banda della Magliana, gente di strada che sa dialogare con la politica e la finanza.
La verità sta in cielo è un film molto femminile. Di
Emanuela Orlandi pochi fotogrammi, il famoso manifesto che ne denunciava
la scomparsa e le immagini in super8 della sua infanzia. Le protagoniste sono tre. Una giornalista italo-inglese (Maya Sansa)
che viene in Italia per scoprire la verità sul caso Orlandi dopo lo
scoppio di Mafia capitale. Una giornalista italiana (Valentina
Lodovini) che ha a lungo indagato sulla sua scomparsa e che ha raccolto
la testimonianza di Sabrina Minardi (la bravissima Greta Scarano), la
compagna di Renatino De Pedis (Riccardo Scamarcio), il boss testaccino
della Banda della Magliana.
Faenza dà grande spazio alla figura della Minardi e a quella del suo
compagno, alle loro vicende di sesso e potere, alla pericolosa intimità
intessuta con politici, faccendieri e uomini di Chiesa, culminata con la
sepoltura di De Pedis nella Basilica di Sant’Apollinare. Fu lei a
fornire nuove piste sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Ed è
soprattutto lei che dialogando con la giornalista, scandisce i tempi e i
contenuti della narrazione filmica.
Faenza non trascura nessun elemento del contesto di quei burrascosi
anni ’80, musicalmente ricostruiti attraverso le canzoni di Toto
Cutugno. Tiene dentro la politica (il senatore Vitalone e il fratello,
avvocato di De Pedis), la finanza (Calvi, lo Ior, Monsignor Marcinkus),
opachi faccendieri (Flavio Carboni), le vicende interne della Banda
della Magliana, le perizie compiacenti ai boss (il professor Aldo
Semerari) il terrorismo internazionale (Ali Ağca), la Polonia di
Solidarność, le trame vaticane (la morte di Giovanni Paolo I), la figura
di Giovanni Paolo II, la Curia Romana.
Per dare maggiore effetto di realtà utilizza molto materiale di
repertorio televisivo, coinvolge Pietro Orlandi (il fratello di
Emanuela) nel ruolo di se stesso e rende omaggio alla trasmissione Chi l’ha visto? che
tanto si è dedicata alla ricerca di una verità che da qualche parte, in
mezzo ai comuni mortali, sarà scritta e che Faenza, in un finale
scenograficamente rarefatto, invita, chi di competenza, a continuare a
cercare.
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