Passa ai contenuti principali

Un '77 di lotta contro la mafia

Il Centro di Documentazione Peppino Impastato compie 40 anni. Umberto Santino, che lo presiede insieme alla moglie Anna Puglisi, ne ripercorre la storia e il senso.

Il 2017 è un anno ricco di ricorrenze per la storia dell’Italia legata alla lotta contro la mafia. Una buona occasione per fare un po’ di storia e non solo retorica memoria. Il 16 gennaio, la Camera dei Deputati ha già ricordato, a 90 anni dalla nascita, Pio La Torre, il segretario del Pci siciliano ucciso nel 1982. Il 1° maggio 1947, saranno settant’anni dalla strage di Portella della Ginestra, il primo mistero dell’era repubblicana fatto di 11 morti e 27 feriti, colpiti nel dì di festa. Fa forse meno notizia, ma è un compleanno importante anche quello che si avvia a festeggiare con una serie di iniziative il «Centro di Documentazione Giuseppe Impastato» di Palermo. A presiederlo ci sono Umberto Santino e sua moglie Anna Puglisi, quarant’anni dedicati allo studio del fenomeno mafioso. Una parte della loro casa nel quartiere Libertà è la sede del Centro, il primo in Italia dedicato alla ricerca sulla mafia, nato nel 1977. Gli anni ‘70 siciliani odoravano anch’essi di piombo e violenza. Nel ’70 era desaparecido Mauro De Mauro, nel ’71 trucidato il giudice Scaglione, nel ’72 ucciso il giornalista Giovanni Spampinato. Nel ’76 c’era stata la strage di Alcamo Marina. Nello stesso ’77 l’ex colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo sarebbe morto in un agguato. Nonostante l’esplosione del terrorismo mafioso, per la commissione antimafia, nel 1976, eravamo ancora di fronte a «una comune forma di delinquenza organizzata». Nei ranghi più alti della cupola, intanto, le famiglie storiche di Cosa Nostra (i Bontate, gli Inzerillo) erano minacciate dall’avanzare dei corleonesi. In pochi anni, Riina e soci le avrebbero sterminate. Il potere ai viddani. Gli storici lo chiamarono «colpo di stato». Anni tristi, miserabili. Ma anche ricchi di speranza, di passioni, di utopie. Lottavano ancora insieme a noi Peppino Impastato, il commissario Boris Giuliano, i giudici Costa e Terranova, il giornalista Mario Francese. Per la prima legge antimafia, l’Italia aspettò il 13 settembre del 1982. Portava la firma di Virginio Rognoni e Pio La Torre. Dalla Chiesa era stato ucciso dieci giorni prima.

Presidente Santino, volga lo sguardo al ’77. Cosa vede?
In quell’anno cominciammo con il convegno «Portella della Ginestra: una strage per il centrismo».
Nella nostra analisi quella strage non era un fatto locale ma si inseriva in un contesto più ampio. L’allarme per la vittoria delle sinistre alle regionali del 20 aprile innescò l’uso politico della violenza,
ponendo fine ai governi antifascisti nati nel ’44 e dando il via al potere democristiano. Di quei giorni,
rivedo i volti di chi non c’è più: Nicola Gallerano, Vittorio Foa, Lisa Giua, Claudio Pavone. Scomparse che lasciano il segno.

Cosa ricorda del clima politico della Sicilia di quei giorni?

Gli anni ’70 videro lo sviluppo e la fine dei gruppi a sinistra del Pci. Io ero al Manifesto. Nel ’77 cominciò il riflusso: autopensionamento per molti militanti, lotta armata per altri. Un disastro collettivo. Palermo era dominata dalla Dc. Con gli omicidi «eccellenti» la mafia dava segnali inquietanti, avviandosi alla guerra degli anni ’80. Era una realtà in evoluzione ma sopravvivevano vecchi schemi. Per il delitto Impastato, ad esempio, si parlò di un fatto anomalo per essere catalogato come delitto mafioso.

Chi fondò il Centro?

Io e Anna. Con noi c’erano magistrati, fotografi (Letizia Battaglia, Franco Zecchin), ma alcuni soci seguirono altre strade. Dopo l’assassinio di Peppino aderirono il fratello Giovanni e la moglie Felicia.

Quando siete nati, a che punto era l’elaborazione sul tema «mafia»?

Il libro più diffuso era quello del sociologo Henner Hess, secondo cui la mafia era una sub-cultura condivisa dai siciliani. Rileggemmo la letteratura precedente. I nostri studi furono la base per il «paradigma della complessità»: la mafia come organizzazione e sistema di rapporti, intreccio tra crimine, accumulazione, potere, codice culturale e consenso sociale. Uno sguardo storico in cui convivevano continuità e innovazione. I riferimenti erano l’inchiesta di Franchetti del 1876 che analizzava la mafia come «industria della violenza» praticata dai «facinorosi della classe media» e l’aggiornamento fatto da Mario Mineo, dirigente della Nuova sinistra, che parlava di una nuova borghesia capitalistico-mafiosa nata negli anni’50.

Visualizzazione di COMIZIO PER IMPASTATO 11 MAGGIO 1978.JPG
Umberto Santino chiude la campagna elettorale di Peppino Impastato (11 maggio 1978)
Tra le vostre battaglie, quella per la verità sulla morte di Impastato è di certo la più importante.

Peppino è un caso unico nella storia delle lotte sociali contro la mafia. La mafia ce l’aveva in casa, non a cento passi. Per questo gli intitolammo il Centro nel 1980. Il nostro coinvolgimento cominciò il
9 maggio 1978, giorno del delitto. L’11 maggio, su invito dei compagni, chiusi la campagna elettorale con un comizio che doveva fare Peppino, indicando come responsabile dell’omicidio Gaetano Badalamenti. Come Centro presentammo un esposto alla Procura. Poi la madre si costituì parte civile, rompendo con i parenti mafiosi. Raccogliemmo prove, sollecitando una magistratura arroccata come le forze dell’ordine nell’idea del terrorista-suicida. Una battaglia condotta in isolamento, conclusa dopo più di vent’anni con le condanne dei mandanti e la relazione della Commissione antimafia sul depistaggio delle indagini. 

Che tipo di materiale custodite?

Abbiamo una biblioteca di circa 8.000 volumi, un’emeroteca, un archivio di atti giudiziari (Maxiprocesso, i processi Spatola, Impastato, Andreotti, Rostagno), i rapporti del questore Sangiorgi di fine ‘800, una delle prime edizioni de I mafiusi della vicaria (primo testo letterario a registrare l’aggettivo «mafiusi»), materiale di controinformazione. Siamo autofinanziati poiché contestiamo le prassi clientelari di accesso ai fondi pubblici. Da tempo collaborano con noi studiosi e docenti dall’Italia e dall’estero.

Visualizzazione di SANTINO PUGLISI.jpg
Umberto Santino e Anna Puglisi nella biblioteca del Centro Impastato
Chi studia il fenomeno mafioso, fa i conti con le vostre elaborazioni scientifiche.

«Complessità», «borghesia mafiosa», «mafia finanziaria» sono ormai luoghi comuni di cui spesso si ignora la paternità. Ma la demistificazione degli stereotipi e l’integrazione dei paradigmi («associazione tipica», «impresa mafiosa») non è ancora un obiettivo raggiunto. Tra gli studiosi prevale l’idea della mafia come «industria della protezione privata», variante di una visione economicistica. La nostra analisi sugli effetti criminogeni della globalizzazione si scontra con le idee correnti ma è confermata dall’aggravarsi di squilibri territoriali e divari sociali. Il nostro lavoro non sempre ha un riconoscimento adeguato. Non abbiamo appartenenze. E questo si paga.

Guardando al presente, che significato dà alla parola «mafia»?

Oggi si parla di mafia per diversi fenomeni criminali. Vi è mafia quando i gruppi di criminalità
organizzata assumono la complessità del modello storico siciliano.

E ad «antimafia»?

È in atto un rigetto dell’antimafia, dopo gli episodi che hanno riguardato alcuni personaggi. Ma il problema va oltre i singoli casi. Buona parte dell’antimafia è legata all’emozione suscitata dai grandi delitti. C’è poca analisi, molta predicazione e disinformazione. Nelle scuole si parla di legalità, ignorando che oltre a quella mafiosa, c’è l’illegalità istituzionale che ha condotto all’impunità delle stragi. E poi si parla di antimafia come di un fenomeno recente, dimenticando lo storico ruolo delle lotte contadine. 

Si può parlare di mafia nella città di Roma?

Certo, se ci sono i requisiti previsti dalla legge antimafia: forza intimidatoria, delitti, attività come appalti e servizi pubblici. Ma non si tratta di una mafia storica, nonostante il peso della Banda della Magliana.
Come festeggerete questi quarant’anni?

In primavera uscirà una pubblicazione su quella che chiamo «la mafia dimenticata» e un lavoro su Peppino, fatto insieme a suo fratello Giovanni. Peppino lo ricorderemo ancora il 9 maggio. Poi abbiamo in programma iniziative sul territorio, da Comiso alla tratta degli esseri umani. E ancora incontri sui temi oggetto delle nostre ricerche: media, cinema, mobilitazioni, il ruolo delle donne, la scuola, l'antiracket, l'uso sociale dei beni confiscati. Infine c’è il progetto del No Mafia Memorial, spazio polivalente per raccontare la mafia e le lotte sociali. Dovrebbe essere uno spazio della città, con il Comune co-fondatore e non solo concessionario dei locali. C’è una delibera, ma è ancora sulla carta. 

ANDREA MECCIA, Il Manifesto, 24 febbraio 2017

Commenti

Post popolari in questo blog

«L'è lü!». E il mostro fu sbattuto in prima pagina...

Sei i protagonisti di una grottesca scena messa su dallo Stato italiano. E' il 16 dicembre del 1969 a Roma, in tribunale. Quattro poliziotti ben vestiti, pettinati e con la barba fatta; un ballerino anarchico, con la barba incolta, stravolto dopo una notte insonne per via di un interrogatorio e un tassista milanese. «L'è lü (E' lui)!», escalama il tassista Cornelio Rolandi. «Ma m'hai guardato bene?», ribatte l'anarchico Pietro Valpreda. «Bè, se non è lui, chi'l gh'è no», si convince il Rolandi. E così il mostro fu sbattuto in prima pagina. Il Rolandi si era presentato dai carabinieri di Milano la mattina del 15 dicembre, mentre si svolgevano i funerali di Piazza Fontana, convinto di aver trasportato sul suo taxi il responsabile della strage alla Banca dell'Agricoltura. La sua macchina era posteggiata a poco più di 100 metri dalla filiale. Un uomo con una valigetta aveva chiesto di portarlo nei pressi della Banca e di aspettarlo lì. Pochi minuti dopo era ...

“La battaglia elettorale”, la recensione al volume “Schermi nemici”

Affermare che un libro di storia sia sempre un’opera di storia contemporanea non basta a spiegare l’attualità di un volume che sa guardare, con un approccio interdisciplinare, ad una particolare forma di produzione audiovisiva, il fu (?) cinema di propaganda. Parola fulcro, quest’ultima, che ci serve a capire il lavoro di Mariangela Palmieri, docente di Storia del cinema all’Università di Salerno le cui ricerche vertono sugli audiovisivi come fonte storica. Ma di che oggetto stiamo parlando, dunque, e quale la contemporaneità della sua analisi? Sotto la nostra lente vi sono le pagine di Schermi nemici. I film di propaganda della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano (1948-1964) uscito per Mimesis Edizioni con la prefazione di Pierre Sorlin (Collana «Passato prossimo», pp. 182, 17 Euro). Un’opera che guarda ad un’epoca cronologicamente lontana ma storicamente ancora densa di significati per il nostro presente. Almeno per due motivi. Il primo perché viviamo nella cosidde...

El gordo non si alza ma chiede scusa...

Finale di partita Gabriela camminava abbracciata ai fiori che portava per suo fratello Javier, nel cimitero della Chacarita, a Buenos Aires, quando per caso scoprí la tomba di Osvaldo Soriano. - Fiori non ne vuole, - le disse il becchino. - Lui é uno di sinistra. - Ma a noi di sinistra piacciono i fiori, - rispose Gabriela. Il becchino scosse il capo: - Qui vengono un sacco di tipi strani. Se lei potesse vedere... Se le raccontassi... E le racconto'. Mentre spazzava il terreno con la ramazza, il becchino racconto' che la' accorrevano dei tipi strani, che si mettevano a girare attorno alla tomba di Soriano, e chiacchieravano. Non stavano mai zitti. E - non c'e' proprio piú rispetto -ridevano! -Le sembra possibile? Ridono. Capisce? Ridono! Si piegano in due dalle risate, - proseguí il becchino, ma quella non era ancora la cosa peggiore. - Se lei sapesse... Se le raccontassi... - E a voce bassa: - Gli lasciano anche delle lettere! Gli seppellisono dei bigliettini! Le p...