Essere tifoso
Non sono napoletano di origine e sono un tifoso del Napoli. Senza aggettivi. Una persona che non scandisce la propria vita sociale secondo i palinsesti del campionato di calcio e che vorrebbe andare più spesso allo stadio perché ama i riti collettivi. Non sono abbonato alle pay-tv. Non dico che mi basta sentire la partita alla radio, ma siamo quasi lì. E comunque durante i 90 minuti in cui la mia squadra scende in campo il sangue ribolle e essere aggiornato “minuto per minuto” è come l’acqua per i pesci.
Se certe uscite del presidente o dell’allenatore non mi piacciono, lo ribadisco e lo sottolineo. Se il Napoli ha cadute di stile, sono il primo a riconoscerle. Non sono solito prendere in giro gli avversari. Conta quello che fa la mia squadra, non quello che succede agli altri. Tra tutte i club di serie A, quello che malsopporto è la Juventus. Per mille motivi. Quest’anno ancora di più, ovviamente, perché con ogni probabilità i bianconeri suoneranno la settima sinfonia consecutiva tricolore, lasciando al mio Napoli le briciole e la gloria del bel calcio che non trionfa mai.
Eppure, nonostante questa certezza, ben sottolineata oggi dalla prima pagina della Gazzetta, da qualche settimana a questa parte − precisamente dal gol di Dybala alla Lazio – sono personalmente oggetto di “simpatici” sfottò da parte di amici juventini. Sembra che non attendessero altro che il momento giusto per ribadire “senza malizia” (cit.) tutta la loro ferocia e superiorità calcistica.
Avere la risposta pronta
Fino a quel momento, se ne sono stati buoni, sicuri e convinti che l’ora giusta scoccasse. Il bello è che gli juventini sono così. Se provi a ragionare su come la Juve sia un pezzo di storia d’Italia (nel bene e nel male) si offendono e ribattono: «Il tifo è una cosa che nasce da bambini… che c’entrano Agnelli e la Fiat?». Se provi a ricordargli le indagini sui rapporti tra la ‘ndrangheta e settori della tifoseria, replicano: «E la camorra a Napoli? E Maradona con i Giuliano?». Se dici che il calcio è questione di poteri forti e che gli arbitri contano, ti danno anche ragione: «Ti ricordi Collina e la pioggia di Perugia?».
Se vai con la mente all’estate del 2006 e Calciopoli, ti dicono: «Nella finale mondiale, tra Italia e Francia quanti juventini c’erano in campo». Provi a parlare di doping? «Perché gli altri non lo prendevano?». Sembrano sempre distaccati, atarassici. Se parli di stampa benevola nei loro confronti, tirano fuori i telecronisti tifosi. Se sottolinei il bel gioco del Napoli, ti ricordano che nella Storia si entra con i trofei. Sembrano sempre distaccati, poi. E dicono che si annoiano a vedere la Juventus in Serie A, per via di partite troppo simili a sedute di allenamento. Troppo divario.
Filumena
Aspettano marzo per divertirsi un po’. Per ribadire il primato in testa alla classifica. Per giocare in Europa gare che contano veramente. Secondo lo juventino, credo che vincere non sia «l’unica cosa che conta». Oltre la vittoria c’è di più. Ciò che ha un valore sciolto da ogni vincolo è riprendere l’aria da padrone. Prima o poi, lo sanno che quel momento arriva. Per lo juventino non è meno vitale farsi una bella risata di fronte alle sconfitte altrui.
Quando li vedo e li sento, ironia della sorte, mi balenano nella mente un paio di scene di Filumena Marturano di Eduardo. Lo juventino, quando vince (e si rilassa) assomiglia a Domenico Soriano davanti all’avvocato Nocella mentre procede – codice civile alla mano – all’annullamento del matrimonio e donna Filumena si aggrappa disperatamente ai suoi umani principi. Quando lo juventino ride, mi sembra di sentire sghignazzare Mimì e i suoi compari mentre salgono le scale del bordello pronti a soddisfare i loro piaceri. Una risata falsa ma terribilmente vera, che riposa nella testa e nel cuore, si palesa minacciosamente lungo le scale, preambolo di un piacere che non so definire. Un ghigno ripetitivo. Sempre uguale a sé stesso. Tanto in bocca al ricco, quanto al povero.
Pubblicato su Il Napolista
Non sono napoletano di origine e sono un tifoso del Napoli. Senza aggettivi. Una persona che non scandisce la propria vita sociale secondo i palinsesti del campionato di calcio e che vorrebbe andare più spesso allo stadio perché ama i riti collettivi. Non sono abbonato alle pay-tv. Non dico che mi basta sentire la partita alla radio, ma siamo quasi lì. E comunque durante i 90 minuti in cui la mia squadra scende in campo il sangue ribolle e essere aggiornato “minuto per minuto” è come l’acqua per i pesci.
Se certe uscite del presidente o dell’allenatore non mi piacciono, lo ribadisco e lo sottolineo. Se il Napoli ha cadute di stile, sono il primo a riconoscerle. Non sono solito prendere in giro gli avversari. Conta quello che fa la mia squadra, non quello che succede agli altri. Tra tutte i club di serie A, quello che malsopporto è la Juventus. Per mille motivi. Quest’anno ancora di più, ovviamente, perché con ogni probabilità i bianconeri suoneranno la settima sinfonia consecutiva tricolore, lasciando al mio Napoli le briciole e la gloria del bel calcio che non trionfa mai.
Eppure, nonostante questa certezza, ben sottolineata oggi dalla prima pagina della Gazzetta, da qualche settimana a questa parte − precisamente dal gol di Dybala alla Lazio – sono personalmente oggetto di “simpatici” sfottò da parte di amici juventini. Sembra che non attendessero altro che il momento giusto per ribadire “senza malizia” (cit.) tutta la loro ferocia e superiorità calcistica.
Avere la risposta pronta
Fino a quel momento, se ne sono stati buoni, sicuri e convinti che l’ora giusta scoccasse. Il bello è che gli juventini sono così. Se provi a ragionare su come la Juve sia un pezzo di storia d’Italia (nel bene e nel male) si offendono e ribattono: «Il tifo è una cosa che nasce da bambini… che c’entrano Agnelli e la Fiat?». Se provi a ricordargli le indagini sui rapporti tra la ‘ndrangheta e settori della tifoseria, replicano: «E la camorra a Napoli? E Maradona con i Giuliano?». Se dici che il calcio è questione di poteri forti e che gli arbitri contano, ti danno anche ragione: «Ti ricordi Collina e la pioggia di Perugia?».
Se vai con la mente all’estate del 2006 e Calciopoli, ti dicono: «Nella finale mondiale, tra Italia e Francia quanti juventini c’erano in campo». Provi a parlare di doping? «Perché gli altri non lo prendevano?». Sembrano sempre distaccati, atarassici. Se parli di stampa benevola nei loro confronti, tirano fuori i telecronisti tifosi. Se sottolinei il bel gioco del Napoli, ti ricordano che nella Storia si entra con i trofei. Sembrano sempre distaccati, poi. E dicono che si annoiano a vedere la Juventus in Serie A, per via di partite troppo simili a sedute di allenamento. Troppo divario.
Filumena
Aspettano marzo per divertirsi un po’. Per ribadire il primato in testa alla classifica. Per giocare in Europa gare che contano veramente. Secondo lo juventino, credo che vincere non sia «l’unica cosa che conta». Oltre la vittoria c’è di più. Ciò che ha un valore sciolto da ogni vincolo è riprendere l’aria da padrone. Prima o poi, lo sanno che quel momento arriva. Per lo juventino non è meno vitale farsi una bella risata di fronte alle sconfitte altrui.
Quando li vedo e li sento, ironia della sorte, mi balenano nella mente un paio di scene di Filumena Marturano di Eduardo. Lo juventino, quando vince (e si rilassa) assomiglia a Domenico Soriano davanti all’avvocato Nocella mentre procede – codice civile alla mano – all’annullamento del matrimonio e donna Filumena si aggrappa disperatamente ai suoi umani principi. Quando lo juventino ride, mi sembra di sentire sghignazzare Mimì e i suoi compari mentre salgono le scale del bordello pronti a soddisfare i loro piaceri. Una risata falsa ma terribilmente vera, che riposa nella testa e nel cuore, si palesa minacciosamente lungo le scale, preambolo di un piacere che non so definire. Un ghigno ripetitivo. Sempre uguale a sé stesso. Tanto in bocca al ricco, quanto al povero.
Pubblicato su Il Napolista
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