In una notte di fine estate, il 23 agosto del 2016 un sisma colpisce l’Italia centrale (ri)mettendo al centro dell’agenda dei media l’Italia dei borghi e delle contrade. Nelle ore successive al tremolìo della terra, i media sfoderano la loro potenza produttiva e comunicativa. Bramano cartoline dal terremoto, voci e battiti cardiaci aggrappati alla speranza di salvezza, particolari piccoli o grandi che restituiscano il senso della maceria, della distruzione. Nel giro di poche ore il sisma viene consegnato alla storia come “il terremoto dei bambini”. Ancora una volta «i bambini», soggetti «privi di cittadinanza» che «quasi non esistono nella stampa italiana», sono «al centro dell’attenzione (...) solo come vittime» (S. Laffi, 2014). Vediamo piangere per i fanciulli scomparsi, ritrovare voglia di vivere per chi è sopravvissuto fra la polvere e i detriti, celebrandolo come sinonimo di una vita comunitaria che può ricominciare. (Ri)prendiamo consapevolezza di come il salvataggio di un bambino in diretta sia la chimera della TV, il balsamo in grado di lenire una ferita nazionale mai rimarginata. Il fanciullo da salvare davanti alla telecamera, in Italia, avrà sempre il nome di Alfredino Rampi, il bimbo spirato in un pozzo di Vermicino, alle porte di Roma nel giugno del 1981. Da quel giorno in avanti, si andrà «costituendo il paradigma dominante dei due decenni successivi: la vittima come spurgo del mondo, (...) come sistema salvifico, spiegazione generale dell’universo» (M. Belpoliti, 2015).
Quella drammatica storia privata verrà trasformata dalla televisione pubblica di allora in un lutto nazionale. «Tutto l’evolversi della tragedia» verrà raccontato. «La disperazione della madre, fino a registrare lo spegnersi della voce del bambino» (A. Grasso, 2007) non sarà nascosta al pubblico. Il set di Vermicino segnerà, come ha scritto Giuseppe Genna, «l’incipit della presa di vita delle immagini» in un Paese avviato alla celebrazione del «mito del benessere», di «un’Italia generosa, narcisista e multiforme», ricordandoci che «Alfredino è arrivato a essere il Babau, il Bambino che è la fine di tutti i bambini». Perché «Alfredino fu partorito nel morire, in quell’utero strettissimo di terra diaccia, ma partorì, materno e aureo, e partorì un intero mondo: questo che viviamo oggi».
Tratto da A. Meccia, Il cinema. Italia 2016. Nella morsa di Alfredino, in Under. Giovani mafie periferie (a cura di D. Chirico e M. Carta, Giulio Perrone Editore, 2017)
Commenti
Posta un commento