Il cinema, il mondo dei neomelodici, il brand abbinato a prodotti commerciali: un saggio esamina l'attrazione fatale tra i boss e i media
«L'avete visto, oggi, sul giornale, a Gina Lollobrigida?». Così, secondo il racconto di Antonino Calderone, il mafioso Totò Minore parlava di Giuseppe Genco Russo. Al boss di Mussomeli (che si autodefiniva “un giudice di pace” e che nel 1957 siederà al summit siculo-americano del Grand Hotel et des Palmes), non si perdonava la sovraesposizione sulla stampa del tempo. Basterebbe rievocare questa battuta per giustificare il titolo del nuovo libro di Marcello Ravveduto, public historian presso l’Università di Salerno. Lo spettacolo della mafia (Edizioni Gruppo Abele) è un volume denso e ben documentato che affronta con analisi, percorsi e strumenti di orientamento − una questione democratica irrisolta dal sistema scolastico del nostro Paese: l’analisi dei fenomeni criminali nella loro dimensione mediatico-comunicativa. Lo fa mentre l’universo iconico della contemporaneità si fa più complesso minuto dopo minuto, in un’epoca in cui le giornate della e per la legalità proliferano nonostante il fronte antimafia arranchi nella ricerca di rinnovati orizzonti e parole d’ordine ed in contemporanea la cartolina del Belpaese si compone di scenari da Grande bellezza mescolati a quelli dell’ormai inscindibile binomio Gomorra-Suburra. Il tutto accade nel tempo in cui il 23 maggio diventa la data giusta per lanciare sul mercato prodotti con hashtag ammiccanti al “mafia e dintorni” (da ultimo Il traditore di Bellocchio) e i giudici Falcone e Borsellino diventano protagonisti di spot e di serate ribollenti di musica neomelodica come racconta Franco Maresco nel suo La mafia non è più quella di una volta (premio della Giuria all’ultimo Festival di Venezia). Dall’altro lato, intanto, il potere coercitivo, totalizzante e totalitario delle organizzazioni mafiose aggiorna le proprie strategie di costruzione del consenso, dimostrando ancora una volta come esse siano a un tempo protagoniste e spettatrici interessate della realtà. Dalla famiglia Strangio che su Facebook rivendicava “giustizia” per il proprio rampollo sotto processo (e poi condannato) per la strage di Duisburg del 2007 a Salvo Riina fu Totò ideatore di una linea di t-shirt e cover personalizzate sotto il brand “Riina family life”. Nell’era dell’homo dieteticus, il tema non poteva poi non toccare il mondo enogastronomico, che dopo aver assistito sui banchi della Corte di Giustizia UE all’affaire spagnolo “La mafia se sienta a la mesa” è stato “scosso”, lo scorso agosto, dai dolci in mafia style venduti in una pasticceria di Taormina. In questo contesto culturale si affacciano nel mercato editoriale le 204 pagine scritte da Ravveduto.
Un fotogramma tratto da La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco (2019) |
A voler essere cinici, questo libro non scopre nulla di nuovo. «La parola “mafia” compare per la prima volta, nel 1863, in una commedia popolare siciliana di grande successo, I mafiusi de la Vicaria». Sono parole scolpite nella voce “Mafia” dell’enciclopedia Treccani firmata da Salvatore Lupo. Eppure, Ravveduto, con un’operazione da pop-art, compie un’azione necessaria. Ci permette di (ri)conoscere ciò che sta davanti ai nostri occhi ma non sappiamo leggere: la dimensione comunicativa delle mafie. Lo fa attraverso il metodo della public history che, superando gli steccati degli ambienti accademici e offrendosi ad un pubblico di non addetti ai lavori, permette di raccogliere la sfida della migrazione e della natività digitale dell’autore e dei fenomeni che conduce nel suo laboratorio laddove compie analisi, verifica tesi, certifica errori, scrive conclusioni. Ravveduto analizza «un serbatoio inesauribile di percezioni e narrazioni che trasmettono valori, simboli, icone e miti della contemporaneità», affronta la minaccia che la modernizzazione delle mafie – pendoli costantemente oscillanti tra tradizione e modernità – lancia alla convivenza civile. Questo libro, mai settario e sempre pronto a navigare in mare aperto, ci dice che da sempre «tra media e mafia esiste un’attrazione fatale» e ci aiuta a decifrare soprattutto questo: la capacità adattiva delle organizzazioni criminali al contesto circostante, all’ambiente sociale, economico e comunicativo. Nei nove capitoli del libro, Ravveduto osserva i fatti storici e li coniuga attraverso collegamenti multidisciplinari, approfondisce la storia della mentalità mafiosa restituendoci gli elementi strutturali di un fenomeno di lunga durata, offrendoci una visione aggiornata sul codice culturale delle organizzazioni criminali e della loro relazione con l’opinione pubblica. Dai testi di Dumas padre, Du Camp e Monnier sulla camorra nell’Ottocento, ai mafia-movie del nostro archivio cinematografico, dalla trilogia de Il Padrino all’universo della canzone neomelodica, dalle biografie dei martiri della Repubblica italiana al paradigma delle stragi mafioso-terroristiche degli anni Ottanta-Novanta passando per l’evoluzione del movimento antimafia. Ma il momento più interessante del libro è il capitolo dedicato alla “Google generation”. Qui l’autore descrive la cover research compiuta su Facebook. Attivando un profilo fake, Ravveduto ha esaminato 80 profili di ragazzi “borderline” fra i 14 e i 24 anni. Un’operazione che ci restituisce la dimensione della malavita organizzata nell’era tecno-liquida, che spiega la relazione tra le identità digitali e la devianza e che disegna, nello specifico, l’immaginario mediatico (jihadismo e narcos latinoamericani su tutti) di cui si nutrono le “paranze dei bambini” di Napoli nello strutturarsi come soggetti criminali. Ne viene fuori un ritratto dolente di una generazione che vive l’Italia come una terra straniera e che, nel proprio ghetto fisico (ri)vissuto attraverso la sfera dei nuovi media, pratica «un fondamentalismo che cementa l’identità territoriale all’identità marginale/deviante, rovesciando il vittimismo post-unitario nell’orgoglio criminale della globalizzazione».
La Repubblica - Palermo, 21 settembre 2019
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