Letizia Battaglia e Franco Zecchin (Palermo, 1987) |
Nel suo nome la gioia, la serenità, il piacere. Nel suo cognome il conflitto, il confronto, la lotta. Letizia Battaglia, la più importante reporter che abbia mai raccontato la violenza della mafia in Italia, compie 85 anni il 5 marzo 2020. Lo fa nelle vesti di direttrice del Centro internazionale di fotografia di Palermo, la sua città, il luogo da cui è fuggita mille volte e in cui è sempre tornata. Dopo le stragi del ’92 ad esempio, quando, in preda alla disperazione per gli attentati ai giudici Falcone e Borsellino, si rifugiò a Parigi. O nei primi anni ’70, quando, dopo la separazione dal marito, raggiungerà a Milano il suo collega e compagno Santi Caleca. Ma sarà il ritorno a Palermo nel 1974 e il nuovo legame con il fotografo Franco Zecchin, a segnare la sua carriera di fotoreporter.
IL LAVORO PER L’ORA
Letizia-e-Franco lavoravano per L’Ora (la storia di questo quotidiano diventerà presto una serie Tv prodotta dalla Indiana Production), un giornale comunista che usciva al pomeriggio e per il coraggioso racconto di Cosa nostra aveva già corrisposto un terribile tributo di sangue. Una bomba in redazione nel 1958, gli omicidi dei giornalisti Cosimo Cristina (1960) e Giovanni Spampinato (1972), un caso di lupara bianca con la sparizione di Mauro De Mauro (1970). Questo l’amaro bottino di una instancabile attività giornalistica fatta di titoli a nove colonne e foto di mafiosi in prima pagina. In quegli anni Letizia Battaglia, con i suoi zoccoli e le gonne a fiori, a bordo di una Vespa e armata di macchina fotografica, documenta tutto quello che accade in città. Cronaca, costume, sport, politica. Nulla sfugge al suo insaziabile obiettivo. Letizia racconta storie di vita quotidiana attraverso immagini in bianco e nero. Ma il suo sguardo deve misurarsi giorno dopo giorno con l’odore del sangue, con gli anni di piombo palermitani, così diversi ma così simili a quelli che tutta l’Italia di allora vivrà. Siamo nella stagione dei cadaveri eccellenti, del traffico di eroina, della seconda guerra di mafia, dell’ascesa dei corleonesi, della Palermo-Beirut, del Maxiprocesso, della primavera cittadina, degli attentati ai giudici. E così Letizia Battaglia, con la convinzione di poter cambiare il mondo attraverso uno scatto, si ritrova “dentro la guerra”, un conflitto – dirà tempo dopo – “che non sapevamo ancora che avremmo perso”. Ma nella sua vita, non è solo l’opposizione alla violenza mafiosa a scatenare il desiderio di un mondo migliore.
AFFRONTARE LA PAURA
Il 13 maggio del 1978, quattro giorni dopo gli omicidi di Aldo Moro e Peppino Impastato, il Parlamento italiano approva la legge n. 180 (cosiddetta “Legge Basaglia”), la riforma che rappresentò la fine della stagione degli ospedali psichiatrici in Italia. In quel periodo Letizia lavora come volontaria nella Real Casa dei Matti a Palermo. La sua macchina fotografica le terrà compagnia e da quella esperienza nascerà, nel 1979, la mostra Via Pindemonte e dintorni, allestita dal Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato fondato da Umberto Santino e Anna Puglisi nel 1977 e poi dedicato alla memoria di Peppino. Qualche mese dopo, con le foto di Letizia Battaglia, Franco Zecchin e altri reporter, il Centro mette in piedi la mostra Mafia oggi. Siamo nell’anno degli omicidi del giornalista Mario Francese, del commissario Boris Giuliano, del giudice Terranova e del maresciallo Mancuso. Il giornalista Giuseppe Joe Marrazzo è a Palermo e intervista Letizia. Alle sue spalle, quasi a darle forza e protezione, c’è Zecchin. Letizia si presenta così: “Siamo fotoreporter di un quotidiano, L’Ora… Lo spazio che ci dà il giornale non ci basta per dire le cose che vogliamo…”. Per questo espongono le loro foto nelle vie della città. Marrazzo le chiede del loro rapporto con la “paura” e lei confessa: “Sento che questo momento è drammatico. Mi sento sulla pelle questa violenza”. È un sentire che sa di sventurata profezia. La guerra di mafia e l’attacco alle istituzioni ancora non avevano sprigionato del tutto la loro geometrica potenza. Tanto dolore avrebbe investito ancora la Sicilia e l’Italia intera.
I PREMI INTERNAZIONALI E L’IMPEGNO POLITICO
Sei anni dopo, nel 1985, Letizia sarà insignita del primo grande premio della sua carriera: l’Eugene Smith Grant a cui faranno seguito altri prestigiosi riconoscimenti (New York Times Award, Mother Johnson Achievement, Dr. Erich Salomon Preis, Cornell Capa Infinity Award). Ma gli anni ’80 saranno segnati anche dal suo impegno, come assessore, nella prima giunta cittadina del sindaco Leoluca Orlando. “Vissi quell’incarico come un dono. Potevo eliminare le rovine dalla città e costruire su di esse. Potevo togliere la spazzatura dalle strade, incontrare i bambini nelle scuole avendo un ruolo, parlando loro della natura, dell’ambiente. Feci piantare tanti alberi nella città. Passai dal convivere con la morte, al piantare la vita”, ricorderà negli anni a venire.
IL CINEMA
La sua vita di reporter, Letizia la racconterà in numerose mostre in giro per il mondo ma anche davanti la macchina da presa. Oggi, ad 85 anni, la sua filmografia si arricchisce di un altro tassello. Nelle sale italiane, uscirà il 23-24-25 marzo Letizia Battaglia-Shooting the mafia della regista Kim Longinotto. Dopo Battaglia, il documentario firmato da Daniela Zanzotto (2004), le sue foto e i suoi racconti avevano già impreziosito In un altro Paese, altro documentario firmato da Marco Turco (2005). Letizia reciterà anche in Palermo shooting di Wim Wenders (2009) ma sotto la direzione dell’eretico Franco Maresco, dopo il documentario La mia Battaglia, sbarcherà all’ultimo Festival di Venezia con un film vincitore del Premio della Giuria. Il nichilista La mafia non è più quella di una volta, seguito ideale di Belluscone, vede Letizia affidarsi all’intelligenza “lucida e disperata” di Maresco ed indignarsi di fronte alle superficiali celebrazioni in memoria di Falcone e Borsellino. Per Letizia, la mafia che è riuscita a catturare nei suoi rullini, quella “del sangue nelle strade”, non c’è più.
DENTRO E FUORI LA GUERRA
Ma c’è ancora, nel tessuto civile ed emotivo di questo Paese, il dolore e l’emozione di quei giorni che Letizia ha illuminato con il suo lavoro. L’immagine che immortala il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella ferito a morte nel giorno dell’Epifania del 1980 e accolto fra le braccia da suo fratello Sergio, l’attuale Presidente della Repubblica italiana. Lo scatto che ritrae il sanguinario Leoluca Bagarella manette ai polsi e intento a sferrare un calcio a quella donna che osa sfidare il suo sguardo di preda braccata. Le foto dei bambini che giocano a fare i killer nei vicoli scorticati di Palermo o costretti a letto tutto il giorno nei loro tuguri, brucianti controcampi delle icone della nobiltà palermitana impegnata in lussuosi ricevimenti. E poi le bambine nelle viuzze cittadine, con un pallone o la busta del pane fra le mani. Svelerà Letizia: “Sia che fossi sul luogo di un delitto o di un arresto, cercavo sempre la ‘bambina’, volevo impossessarmene fotograficamente, fermare la sua immagine in un mio tempo magico. Quando la trovavo tremavo per l’emozione: niente mi fa tremare come l’incontro con quel mondo pieno di desideri, di speranze, forte, di una bambina che si sta affacciando all’adolescenza”. Fotogrammi che sembrano aprire la strada al volto, ritratto in un simmetrico chiaroscuro, di Rosaria Costa, moglie di Vito Schifani, l’agente di scorta ucciso assieme al giudice Falcone e che durante i funerali delle vittime di Capaci aveva urlato il suo dolore in un toccante discorso. In quegli anni, la mafia aveva reso Palermo “una città di sangue, troppo sangue”, eppure nei suoi momenti più drammatici, Letizia Battaglia non era riuscita a fare click con la sua macchina fotografica. Non aveva scattato il 29 luglio del 1983, in Via Pipitone Federico di fronte al palazzo sventrato dove viveva il giudice Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia. Non era entrata in azione il 23 maggio del 1992 di fronte alla Croma bianca del giudice Falcone ricoperta di terra e catrame sfarinato. Né lo fece 57 giorni dopo, il 19 luglio, in Via D’Amelio, sotto l’irriconoscibile condominio dove viveva la mamma del giudice Borsellino. Non c’era moralismo in quelle scelte, ma il rispetto della propria coscienza. Di una donna, di una cittadina e di una fotografa che oggi vorrebbe guardare il mare, in pace, mentre il desiderio di creare ancora bellezza morde la sua anima.
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