«Viviamo in un’Italia sospesa, sospesa tra passato e futuro. La pandemia ha inciso sul presente e ha fatto sì che la domanda più ricorrente che ci attraversa riguarda il domani che ci attende, se cambieranno o meno le nostre vite o se tutto rimarrà come prima. Sono questi gli interrogativi che alimentano l’inquietudine di questo tempo. Ci sono molti dubbi e poche certezze. Questo stato di sospensione è quello che ci caratterizza in questo momento». Giovanni De Luna – docente di Storia contemporanea all’Università di Torino, volto noto di Rai Storia e firma del quotidiano La Stampa – fotografa così l’Italia che in questa estate si appresta a vivere il quarantesimo anniversario della strage di Bologna.
Con i suoi 85 morti e 200 feriti, quello avvenuto nel capoluogo emiliano il 2 agosto 1980 – a poco più di un mese dalla tragedia di Ustica – è stato il più cruento eccidio che la nostra Repubblica abbia registrato. Si materializzò alle ore 10.25 di un sabato italiano, in una stazione ferroviaria. Ad aver subito condanne come esecutori della strage, i terroristi dei Nuclei armati rivoluzionari Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e, in primo grado, Gilberto Cavallini.
«La libertà è lì a terra ferita/non possiamo più dare/soltanto pietà/questa estate è finita». Quattro giorni dopo l’attentato, su Paese Sera, il poeta Roberto Roversi descriverà con questi versi l’ennesimo capitolo di un tragico romanzo che vedeva come protagonista, nel contesto della Guerra fredda, la democrazia di un Paese occulto, insanguinato dalla violenza politica e spossato da tentativi di rovesciamento dell’ordine democratico.
Professor De Luna, rispetto alla strage di Bologna, quello del numero dei morti, è un dato su cui dobbiamo riflettere ancora oggi?
La memoria di questi eventi del passato interagiscono con il presente che stiamo vivendo. Nessun anniversario della strage di Bologna può essere uguale a sé stesso. Le urgenze del presente dettano l’agenda della memoria. In questo momento credo che ancora una volta ci sia un paradigma vittimario che blocchi le vittime dell’attentato all’interno di un’unica dolorosa elaborazione del lutto. Per via della pandemia, il modo in cui lo spazio pubblico si rivolge a quanto accaduto è quello delle vittime.
Si sta già parlando di una giornata dedicata alle vittime del CoVid-19…
Si tratterebbe di una ennesima giornata della memoria dedicata a chi non c’è più. Negli ultimi venti anni tutta la dimensione pubblica è stata segnata da questo paradigma vittimario che fa sì che anche la pandemia venga inserita in questa lunga litania di lutti al cui interno si perde la specificità di ognuno. Il rischio è che di Bologna si parli ancora una volta soltanto delle vittime e non dei carnefici e di quanto dietro la strage c’è. Così come rispetto alla pandemia il rischio è che l’elaborazione del lutto si esaurisca tutto in una dimensione legata al dolore e al cordoglio. Io spero che per Bologna questa volta sarà diverso.
Nel suo ultimo numero, il settimanale L’Espresso, attraverso documenti esclusivi, ha scritto di cinque milioni di dollari distribuiti dal capo della P2 Licio Gelli per finanziare i terroristi neri e comprare la complicità degli apparati di sicurezza.
La vicenda giudiziaria di questa strage è intricatissima. C’è una dimensione che va al di là di essa e conoscerla, raccontarla è di grande utilità per il futuro. Vorrei perciò sottolineare la lezione che proviene dai familiari delle vittime della strage del 2 agosto. I familiari sono molto importanti nella costruzione di una memoria pubblica. Alcuni scaraventano nello spazio pubblico quelli che dovrebbero essere dei sentimenti privati, invece altri hanno anteposto al loro dolore l’esigenza della verità e della giustizia, esigenze che richiamano a valori pubblici e collettivi più che a valori individuali. Per Bologna mi auguro che sia questa la voce che venga ascoltata e che in qualche modo si cerchino di capire il contesto e il perché di quella strage. Guardando ancora una volta al presente, quando parliamo di depistaggi, cosa ci impedisce che oggi non ci sia più quella litania di complicità, ostruzionismi che hanno caratterizzato le nostre forze dell’ordine rispetto agli eventi stragisti?
Di cosa abbiamo bisogno, quindi?
Di fare più storia e meno memoria. La storia ha dentro di sé un approccio più sereno e consapevole. La storia si alimenta di fonti, di testimonianze e soprattutto deve dar conto. Si può affermare qualsiasi cosa, ma lo si può fare solo indicando le fonti. Bisogna dire esplicitamente quali sono gli obiettivi e le intenzioni della propria ricerca. La storia è un banco di prova di profonda onestà intellettuale che spesso, purtroppo, non appartiene alla memoria che vive su una dimensione, giustamente, più passionale. La storia non ha ferite e dolori da sanare ed esorcizzare. La storia è un elemento di consapevolezza ed è la conoscenza del passato, non la dimensione emotiva della cultura.
Il racconto della storia negli ultimi anni non è stata un’operazione compiuta soltanto dagli storici accademici, ma è stato un terreno su cui si sono misurate tante figure professionali attraverso differenti linguaggi. Come analizza questo fenomeno?
Esiste un’arena dell’uso pubblico della storia, in cui si combatte per la trasmissione della conoscenza del passato, che si è affollata di nuovi contendenti agguerriti e seduttivi, capaci di racconti molto più coinvolgenti rispetto alle produzioni di chi viene dall’accademia. Per questo credo che gli storici non possano più restare confinati in una torre d’avorio ma essere presenti in questo spazio con le proprie specificità e i ferri del proprio mestiere. Marc Bloch, ad esempio, scrive L’apologia della storia nel momento più catastrofico dell’umanità del ‘900, quando l’ordine democratico è crollato e Hitler sembra a un passo al trionfo. Lo fa riaffermando con forza la fiducia nella capacità di trasmettere conoscenza.
Sul fronte istituzionale, negli ultimi decenni, abbiamo invece registrato un impegno dei nostri presidenti della Repubblica nel tessere un tessuto di memoria in cui tutti gli italiani potessero riconoscersi. Pensiamo anche al recente incontro tra Mattarella e Borut Pahor, il capo di Stato sloveno, davanti alla foiba di Basovizza.
L’Europa deve dotarsi di una propria religione civile, mettere in campo dei valori oltre a degli interessi. Deve essere qualcosa in più di un patto economico. La capacità di affrontare le ferite del ’900 insieme è molto significativa ed appartiene alle giuste esigenze di quello che deve essere un patto di memoria tra cittadini. La storia però è un’altra cosa e ti dice che non puoi mettere le foibe insieme alle persecuzioni antiebraiche e agli assalti alle case del popolo in Slovenia. Ci sono delle ragioni diverse per quanto riguarda un patto di memoria pubblica e per quanto concerne la ricerca storica.
Pochi giorni fa, in vista dell’anniversario della strage di Via D’Amelio, Claudio Fava, presidente della Commissione antimafia della regione Sicilia, ha invitato il nostro Paese a seppellire i morti «una volta per tutte», a toglierci il lutto ed affrontare la vita. Il 19 luglio Luigi Ciotti, il fondatore di Libera, definiva «troppo facile una memoria solo commemorativa, una memoria che non è memoria viva, generativa di verità e giustizia». Proviamo a leggere insieme tra le righe di queste parole?
Queste prese di posizione vanno salutate con molto interesse. Libera si è impegnata strenuamente per le vittime della mafia e all’interno di quell’impegno ha anche “strappato” l’ennesima giornata di ricordo per chi è caduto sul fronte mafioso. Chiamare però Falcone e Borsellino “vittime” è un’ingiustizia fondamentale. Perché nelle vittime c’è una presunzione d’innocenza e loro non erano affatto “innocenti”. Loro sono stati uccisi in quanto “colpevoli” di fare bene il proprio mestiere e sono esempi virtuosi da additare in un patto di memoria. Non possiamo avere un pantheon troppo affollato, complessivamente anonimo e incapace di trasmettere valori.
Parafrasando Sciascia, che futuro avrà la memoria nel nostro Paese?
Noi viviamo nella tirannia di un presente che imporrà sempre la sua agenda e che avrà sempre un rapporto strumentale con il passato dove cercherà qualcosa da usare per le sue esigenze. Credo che il nostro passato subirà delle profonde torsioni e distorsioni a causa di questa tirannia.
Che ruolo spetta allo storico quindi?
Cercare di dare al passato uno spessore che non sia appiattito sul presente. Il passato deve essere un terreno di conoscenza, non un luogo per scorribande emozionali, strumentali e politiche.
In un suo saggio, ha parlato dell’Italia come “Repubblica del dolore”. In poche battute, cos’è questa Repubblica costruita ed eretta sulla sofferenza?
È quella che è fondata sul lutto e non sui valori. Quando Calamandrei parlava dei morti della Resistenza non parlava dei caduti in quanto tali, ma dei valori per i quali erano stati uccisi. Nella seconda Repubblica, e poi nella terza, questa dimensione valoriale legata all’esempio dei morti è venuta meno. Sono rimasti i morti. Dei valori non c’è traccia.
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