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"I cento passi" compiono venti anni



“Un film è sempre un'opera d'arte e non riproduce mai la realtà così com'è ma attraverso un certo sguardo, attraverso un certo taglio interpretativo la reinventa, la trasfigura e la carica di senso”. Così recitava Luigi Lo Cascio nei panni di Peppino Impastato ne I cento passi (2000), il biopic che ne ricostruisce la vita fino al suo omicidio per mano mafiosa, consumatosi a Cinisi il 9 maggio del 1978, lo stesso giorno del ritrovamento a Roma di un esanime Aldo Moro, trucidato dalle Brigate rosse. 

Peppino, giovane militante di Democrazia proletaria, si rivolgeva ai suoi compagni per dar vita a una discussione post-film. Al circolo Musica e cultura del suo paese, a due passi da Palermo e nel pieno degli anni ’70, ci si interrogava sul destino del proprio territorio, facendo controinformazione e politica in mille modi. Anche attraverso il cinema. 

Quella sera un folto pubblico aveva appena terminato la visione collettiva de Le mani sulla città di Francesco Rosi, film del 1963, specchio dell’Italia del boom ostaggio della speculazione edilizia e del clientelismo politico-imprenditoriale. Quelle parole immaginate nella pellicola di Marco Tullio Giordana diventano la metafora del film stesso nell’Italia di inizio secolo, un Paese ancora scosso dalla stagione stragista che la mafia aveva messo in atto fra il maggio del 1992 e il luglio del 1993, con gli attentati terroristici di Capaci, Via D’Amelio, Roma, Firenze e Milano. 

In quel nuovo quadro storico-politico determinato dalla caduta del Muro di Berlino e dall’inchiesta di Tangentopoli, c’è da fare i conti con il sangue delle vittime innocenti, con le macerie del patrimonio artistico e monumentale, con la violazione delle istituzioni e del sistema democratico. Ma c’è soprattutto bisogno di resistere, raccontare e non dimenticare. Nel maggio del 1993, Giovanni Paolo II scaglia parole infuocate contro la mafia dalla Valle dei templi di Agrigento, un momento simbolo della sua imponente capacità comunicativa

I familiari delle vittime si rendono protagonisti di un nuovo ruolo pubblico, contribuendo alla venuta alla luce di un’antimafia che registra un’ampia partecipazione della società civile e del mondo scolastico. Nel marzo del 1995 nasce “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”. La narrazione pubblica delle mafie vive una nuova fase, in cui assume particolare importanza la vittima della loro violenza. Un dato: tra il 1992 e il 2018 in Italia si producono 19 film che raccontano storie di morti innocenti. Numeri che se testimoniano la volontà di riappropriarsi di un caotico presente attraverso la lezione del grande cinema civile, certificano allo stesso tempo la paura generalizzata di soccombere di fronte alla violenza mafiosa. 

In questo contesto, il film di Giordana e l’interpretazione di Lo Cascio consegnano al nostro immaginario un personaggio tragico ma popolare, indignato e pieno di vitalità, capace di ridere e di far ridere della mafia e sulla mafia. Il film e le musiche dei Procol Harum e di Janis Joplin che lo accompagnano gettano anche una nuova luce, a tratti nostalgica, su quell’epoca archiviata sotto l’etichetta di “anni di piombo”, elevando Peppino e i suoi compagni di lotta a “buoni maestri”, positivi simboli umani e intellettuali di quella straordinaria stagione che vide concretizzarsi nuovi diritti, dallo Statuto dei lavoratori (1970) alla legge sull’aborto (1978), dal referendum sul divorzio (1974) alla legge Basaglia (1978). 

Quando I cento passi fu accolto tra gli applausi della stampa al Festival di Venezia nel settembre del 2000 – in quella edizione veniva presentato anche Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca, altro film che recupera la memoria di una vittima di mafia politicamente impegnata e di sinistra – della vita di Peppino Impastato e della sua morte violenta si sapeva poco, pochissimo, nonostante da oltre venti anni il Centro di documentazione a lui dedicato, la famiglia e i suoi compagni di lotta si battessero per stabilire la verità e ottenere giustizia sulla sua morte con una instancabile opera di controinformazione fatta di volumi (uno su tutti, il libro-intervista a sua madre La mafia in casa mia), dossier, pubbliche iniziative. Ma i loro sforzi non erano stati vani. In quei giorni, la Commissione parlamentare antimafia stava per ultimare una relazione – approvata poi nel mese di dicembre – che faceva luce sul ruolo di uomini delle forze dell’ordine e della magistratura nel depistaggio delle indagini avvenuto all’indomani del 9 maggio di ventidue anni prima. Erano inoltre in corso due processi che avrebbero visto dure condanne contro il mafioso Vito Palazzolo e contro il boss Gaetano Badalamenti, il Tano seduto interpretato da Tony Sperandeo. 

Nel 1979, l’idea di fare un film su di lui l’aveva avuta Gillo Pontecorvo, il regista de La battaglia di Algeri, ma il progetto non si realizzò. Nel 1993, Marco Risi, con la collaborazione di Claudio Fava, aveva realizzato per Canale 5 un documentario su Peppino. Fu lo stesso Fava, che aveva già raccontato la sua storia nel volume Cinque delitti imperfetti, a scrivere con Monica Zapelli una sceneggiatura che nel 1998 avrebbe ottenuto una menzione speciale al Premio Solinas. È quello il momento in cui la figura di Peppino Impastato prepara il suo ingresso nell’immaginario collettivo italiano. Insieme al premio ottenuto dal Festival di Venezia, ai successivi David di Donatello e riconoscimenti internazionali, I cento passi, con la sua carica pedagogica e di denuncia, diventa da subito il film simbolo di un percorso di educazione antimafia, fuori e dentro il mondo scolastico. La pellicola piace alle nuove generazioni di inizio millennio che sentono bussare alle porte della Storia le minacce della globalizzazione e che stanno per portare le proprie istanze nelle strade di Genova, nei giorni infuocati del G8 di luglio 2001. 

È l’opera per definizione che, sei anni prima dell’esplosione del paradigma Gomorra e oltre un decennio prima dell’umorismo de La mafia uccide solo d’estate di Pif, avvicina il grande pubblico alle questioni mafiose. Il Peppino Impastato che oggi arriva a noi è un personaggio “istituzionalizzato”, libero dal peso e dal fatto di essere (stato) “politicamente scorretto”, lontano dall’idea di “lotta di classe” che lo ispirava. Peppino è celebrato in diverse canzoni (la più famosa è quella dei Modena City Ramblers), è un’icona da murales, un soggetto da social network, riprodotta su magliette e gadget, è un personaggio da graphic novel, un simbolo la cui casa natale è un luogo di memoria e a cui vengono intitolate associazioni, scuole, strade, parchi. In sintesi, una figura inserita perfettamente in tutti i meccanismi di costruzione della memoria che una comunità può mettere in campo. Ma resta il suo carattere libertario e antiautoritario, di chi è nato in una famiglia mafiosa e che muore a trent’anni, dopo aver denunciato, con la feroce forza del sorriso, il potere dei boss e l’affarismo politico-mafioso sfruttando gli strumenti a sua disposizione (stampa, foto, marce, manifestazioni pubbliche), ma soprattutto attraverso le frequenze di una radio libera

E questa capacità di raccontare il suo villaggio sotto assedio dai microfoni di Radio Aut, unita alla voglia di parlare al mondo intero, è penetrata in quell’universo antimafia che ha compreso come, nel XXI secolo, i linguaggi creativi e digitali fossero uno strumento di educazione civica e alfabetizzazione ai diritti. Non a caso, in questi anni, sono nate diverse esperienze radiofoniche attraverso il web caratterizzate da una dichiarata mission antimafia (Radio 100 passi, Radio daSud, Libera Radio, Radio Siani). Peppino, ucciso nelle vesti di candidato al consiglio comunale nelle liste di Democrazia proletaria ed eletto quando del suo corpo non restano che brandelli sui binari di una ferrovia, ricorda(va) le vittime delle dittature sudamericane degli anni ‘70 ed è giustizia-memoria-verità conquistata con fatica quotidiana. Peppino, entrato a far parte dell’Ordine dei giornalisti ad honorem anni dopo la sua morte, è a tutt’oggi celebrato come un eroe della libertà di stampa. È anche figlio che rompe con l’autoritarismo mafioso del padre, che si scontra con il fratello invitandolo a prendere coscienza della realtà in cui sono immersi e che ama sua madre. Felicia Bartolotta, con il suo coraggio e le sue scelte, sarà l’altra grande protagonista del dibattito pubblico sulle mafie incentrato sul ruolo delle donne dentro e fuori i clan. 

A testimonianza di come I cento passi rappresenti il tipico caso di film che gli studiosi chiamano “agente di storia”, ovvero capace di riportare nel dibattito pubblico vicende dimenticate, segnando, con vigore, scelte individuali e collettive. Perché, ci mostra la militanza non di un soldatino di piombo spedito su di un fronte di guerra, ma la vita di un ragazzo della sua generazione a cui è toccato morire nell’esercizio collettivo delle libertà democratiche. Sfidando un tabù. Della mafia si deve ridere. Una lezione da onorare.

*L'articolo è stato pubblicato su The Vision, 2 settembre 2020.

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