Nell’anno del centenario della nascita di Alberto Sordi, quel gran fusto dell’Albertone ce lo ritroviamo armato di pistola, coppola, baffo sicilian style e sguardo verso il bersaglio, sulla copertina de La mafia immaginaria, l’ultimo libro del critico cinematografico Emiliano Morreale (Donzelli editore, pp. 344). L’immagine è tratta da Mafioso di Alberto Lattuada, un film del 1962, e forse non c’è fotogramma migliore che possa essere scelto per sintetizzare settant’anni di Cosa Nostra nel cinema italiano. Non tanto per il valore e l’importanza dell’opera in sé, quanto per la capacità del volto di Sordi di evocare e rimarcare il ruolo del cinema come grande cronista dell’Italia del Novecento. Una pellicola, quella di Lattuada, che ci riporta al contesto politico-culturale dei primi anni ’60, segnati dal boom economico, dalle migrazioni interne e il rapporto con gli States, dai governi di centrosinistra, dalla strage di Ciaculli (sette militari uccisi in una borgata palermitana), dalla cosiddetta prima guerra di mafia e dalla nascita della prima Commissione parlamentare antimafia. Anni che se sul fronte letterario videro Leonardo Sciascia scrivere Il giorno della civetta e Michele Pantaleone dare alle stampe Mafia e politica (entrambi per Einaudi), su quello cinematografico accolsero anche il Salvatore Giuliano di Francesco Rosi e Un uomo da bruciare, il primo lungometraggio dei fratelli Taviani realizzato con Valentino Orsini.
Ma veniamo alle pagine scritte da Morreale, un fiume di inchiostro che scorre «sulla linea tra realtà e rappresentazione, racconta gli spazi intermedi, le mediazioni comunicative ed estetiche e la loro dimensione in ultima istanza ideologica» arricchendo e irrobustendo la discussione pubblica, complessivamente sterile, che accompagna da anni la rappresentazione cine-televisiva dei fenomeni criminali. Un dibattito che, salvo rare eccezioni, fino ad oggi non ha ancora avuto la capacità di liberarsi dell’annosa questione sull’eticità e l’opportunità di quanto, e non come, mettere in scena Male e Bene e di far convergere, sotto un unico articolato sguardo, la complessità dei fenomeni mafiosi con quelli altrettanto intricati dell’industria culturale e dei mass-media.
Il libro, a partire dal titolo, circoscrive la sua analisi alla mafia siciliana e lascia intuire al lettore la sua tesi di fondo, ovvero che «il processo di costruzione dell’immagine cinematografica di Cosa nostra sia essenzialmente interno alla storia dei media» e che sia «la storia del cinema italiano più che la storia della mafia o dell’antimafia, a spiegare le scelte tematiche e stilistiche dei film». L’oggetto che Morreale mette sotto la sua lente d’ingrandimento è il genere mafia movie, definito come un «universo autonomo e autoreferenziale», sicuramente «in dialogo con la storia del paese, ma in maniera imprevista e mediata», un oggetto capace di funzionare più come «sintomo» che come «specchio» e capace di raccontare il presente e il passato del nostro Paese come «lapsus», riscontrando nella Sicilia la capacità di essere metafora del Paese, tra suggestioni letterarie e «efficaci scorciatoie ideologiche».
I sedici capitoli che compongono il testo, abbracciano settant’anni di storia del cinema. Si parte dal 1949, l’anno in cui Pietro Germi realizza il western In nome della legge, un film che rappresenterà un unicum nella storia del nostro cinema fino ai primi (corposi e già evocati) anni ’60, per chiudere con il 2019, con la tragica figura di Buscetta interpretata da Pierfrancesco Favino ne Il Traditore di Marco Bellocchio e l’antidogmatico La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco.
Tra i due estremi periodizzanti, scorre un rigoroso discorso che analizza film, temi e personaggi messi in scena (i boss, le donne, gli eroi, le agiografie, le stragi), i generi/filoni in dialogo con il mafia movie (il western, il poliziottesco, l’erotico, il noir), le politiche degli autori (Rosi, Damiani, Ferrara, Squitieri), il non raccontato efficacemente (la «borghesia mafiosa»), il ruolo del cinema americano (su tutti quel gran «insieme di paradossi» che è Il Padrino), quello del piccolo schermo (pensiamo alle dieci edizioni de La Piovra, «trionfo e fine del mafia movie», ma anche all’esperienza di Cinico Tv nell’era della neotelevisione) e delle innumerevoli serie nel tratteggiare e (ri)definire il nostro immaginario intorno alla criminalità organizzata. Pagine che offrono sempre al lettore puntuali riferimenti alla storia della mafia siciliana, anch’essa giunta, giorno dopo giorno, nell’era postmoderna, una fase in cui il cinema pare disinteressarsi ad essa, «attratto dal racconto di ’ndrangheta, camorra e mafie laziali».
Un universo narrativo, quello di Cosa nostra, che nella produzione letteraria di Andrea Camilleri, lo scrittore siciliano per antonomasia di questo primo scorcio di ventunesimo secolo, è diventato un «ingrediente tra gli altri».
P.S. Il libro è dedicato ad Alessandro Leogrande, intellettuale scomparso a soli 40 anni nel 2017.
*L'articolo è stato pubblicato su Gli Stati Generali, 30 settembre 2020
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