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Il Maradona politico


Populista e terzomondista. Invocato come un Dio terreno e esecrato come un Diavolo. Caro a capi di Stato e di governo ma nemico dei potenti della Fifa. Eroe popolare e amico di camorristi. Leader su un campo di calcio e prigioniero di vizi e debolezze nella vita privata. Figlio affettuoso e marito infedele. Star televisiva e eterna preda per telecamere indiscrete. Evasore fiscale e uomo generoso. Queste prime righe non sono certo sufficienti a descrivere l’indefinibile complessità di quel mostro sacro della storia del calcio che è (stato) Diego Armando Maradona e che oggi, 30 ottobre 2020, a pochi giorni dall’80esimo compleanno di Pelé, festeggia il suo genetliaco numero sessanta. E per uno che ha vissuto una vita di eccessi come el pibe de oro, non era forse così scontato arrivare a questa cifra tonda non di certo trascurabile. Sulla sua figura si è scritto, fotografato, filmato, raccontato tanto, (forse) troppo. Il suo corpo lo abbiamo visto crescere, strutturarsi, tonificarsi, infortunarsi, riabilitarsi, gonfiarsi, appesantirsi, snellirsi, intossicarsi, purificarsi più e più volte. Da quando era bambino e palleggiava davanti a una telecamera sognando un futuro da campione del mondo, fino all’attuale andatura claudicante, passando per i bagni di folla negli stadi di tutto il mondo e i letti di ospedale da cui rischiava di non rialzarsi più. La mole narrativa che ha accompagnato la sua parabola in questi decenni è imponente, trovare una chiave originale per cogliere tra le righe nuove sfumature è impresa provocatoria. Forse è la dimensione politica dell’agire maradoniano ad offrire un quadro più accattivante. Abbiamo provato a ricostruirla, parzialmente, partendo da quanto accaduto due anni fa durante i Mondiali di Russia.

Quel pomeriggio moscovita

È il 16 giugno del 2018 quando, allo stadio Stadio Lužniki di Mosca, sta per andare in scena Argentina-Islanda, prima giornata della fase a gironi del gruppo D della Coppa del Mondo. Prima del fischio d’inizio del match, a richiamare l’attenzione dei media è la comparsa in tribuna di Diego Armando Maradona. Al solo materializzarsi del grido di «Maradooooo, Maradooooo», tutto il resto diventa trascurabile, dalla grande attesa per la prestazione di Lionel Messi all’esordio assoluto per gli islandesi in un mondiale.

Ma procediamo con ordine.

In quelle ore la stampa argentina racconta il quarantesimo anniversario della vittoria al mundial '78 e si augura che gli uomini agli ordini di Jorge Sampaoli conquistino il terzo mondiale della storia della selección. Nel 1978, mentre l’Argentina vive il dramma della dittatura dei generali e il governo di Videla organizza l’undicesima edizione dei mondiali di calcio, la stella di Maradona brilla con la camiseta roja dell’Argentinos Juniors. Diego è considerato un patrimonio nazionale ma il ct Menotti lo lascia a casa. La delusione è grandissima e la sua immagine pubblica diventa quella di un calciatore suscettibile e immaturo, facile alle lacrime e in preda alla disperazione. Anche se il riscatto non tarda ad arrivare – l’anno successivo, Maradona, guida in Giappone la nazionale under 20, allenata dallo stesso Menotti, al successo nella Coppa del Mondo di categoria – la sua esclusione dalla nazionale di Kempes e Passarella resta un episodio tormentato della sua carriera, un momento con cui tentare di riconciliarsi più volte. Al mondiale sudafricano del 2010, per esempio, quando Diego veste i panni di allenatore dell’albiceleste e il Paese, in piena epoca kirchnerista tenta di fare i conti con quella stagione di negazione dei diritti umani. Un giorno, nel ritiro della nazionale fa visita Estela De Carlotto, presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo, Maradona la abbraccia e la accoglie con queste parole: «Tutti noi argentini vogliamo sapere la verità». In quei giorni l'associazione argentina in difesa dei diritti umani è candidata al Premio Nobel per la pace. Otto anni dopo, in occasione dell'esordio dell'Argentina al mondiale russo, Maradona indossa una maglia celebrativa di Argentina '78. L’edizione passata alla storia come quella del terrore di Stato terminata con un successo va comunque celebrata.

Ritorno a Mosca

Se si analizzano con attenzione gli altri elementi narrativi di quel pomeriggio nella capitale russa, ci si rende conto quanto quelle poche ore passate a tifare per la propria nazionale, siano la cartina di tornasole della sua straordinaria, contraddittoria, provocante e ambigua capacità comunicativa. L’ultima partita europea che Diego gioca con il Napoli – siamo nel novembre del 1990 – si svolge proprio lì, nello stadio che un tempo portava il nome di Lenin, il rivoluzionario per eccellenza del XX secolo. Sono gli ottavi di finale della Coppa dei Campioni e gli ultimi mesi di vita dell’Unione Sovietica impegnata comunque a festeggiare l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. I partenopei scendono in campo contro lo Spartak Mosca con il secondo scudetto della loro storia cucito sulle maglie. La maglia numero 10 va sulle spalle di Gianfranco Zola. Maradona siede in panchina. Nelle ore precedenti la partita, il giocatore argentino ha raggiunto Mosca noleggiando un aereo privato ed indossando una pelliccia. Dopo aver eliminato l’Italia con la sua Argentina ai mondiali del ’90, Diego è uno degli uomini più odiati d’Italia e il suo rapporto con la città e la dirigenza partenopea è sempre più tormentato. A ricostruire senza indulgenza i suoi ultimi mesi napoletani, la notte della semifinale mondiale vinta contro l’Italia nel suo Stadio San Paolo, l’intervista Tv nel post-partita al microfono di Gianni Minà con indosso la maglia della nazionale italiana, il coinvolgimento nell’inchiesta su droga e prostituzione della Procura di Napoli (operazione China), è il regista Asif Kapadia nel documentario Diego Maradona. Siamo lontani dalla sua immagine gioiosa, icona simbolo – insieme a quelle di Massimo Troisi, Pino Daniele, Nino D’Angelo – della Napoli degli anni ’80 che tenta di scrollarsi di dosso la polvere delle macerie del terremoto del 1980. Siamo invece di fronte a un uomo imbronciato e risentito che, appena può, maradonea (voce del verbo maradonear, neologismo argentino), sfida, provoca e fomenta, cogliendo come nella politica italiana la questione Nord vs Sud stia vivendo una nuova stagione.

Scriverà Gianni Mura su La Repubblica il 29 aprile del 1990: «Maradona ha già definito meno bello questo scudetto, rispetto al primo arrivato sotto il Vesuvio. Meno bello per le polemiche, i sospetti, le risse verbali e non che l'hanno caratterizzato. Il Milan si sente scippato, il Napoli legittimo vincitore, il tempo smusserà gli spigoli ma intanto la Lega Lombarda ha calcolato circa 50 mila voti in più, perché naturalmente (naturalmente perché siamo in Italia, intendo) il discorso calcistico s'è allargato e infiammato».

Pochi mesi dopo la sconfitta ai rigori contro lo Spartak Mosca, per Maradona scoppierà il caso doping e il suo addio all'Italia sarà inevitabile. La dimessa stagione del Napoli, iniziata con una trionfale vittoria in Supercoppa italiana con una cinquina rifilata alla Juventus, si concluderà con un malinconico ottavo posto in campionato.

L’icona terzomondista

Allo Stadio Lužniki di Mosca, quel pomeriggio del 16 giugno 2018, è vietato fumare. Eppure Maradona si fa immortalare con un bel sigaro cubano fra le dita. Che a fine partita chieda scusa per il divieto infranto è una minuzia irrilevante. Il legame sentimentale con Fidel Castro e la rivoluzione cubana, non solo per quel tatuaggio di Che Guevara impresso sul suo braccio destro, sono un pezzo importante nella biografia di Diego ed è sempre una buona occasione raccontarlo al mondo intero. È infatti al Centro Internacional de Salud La Pradera de L'Avana che Maradona si disintossica dalla cocaina nel gennaio del 2000.

Ma le foto che lo ritraggono in compagnia del líder máximo sono solo parte di una ampia fotogallery in cui Maradona posa insieme ad altri politici latinoamericani, da Evo Morales a Cristina Kirchner, da Inácio Lula Lula a Ugo Chávez. Il momento di maggio popolarità politica Maradona la ottiene nel novembre del 2005, nell'Argentina post-default e sull'onda dei movimenti no global. Nella città balneare di Mar del Plata si tiene il IV Cumbre de las Américas, il quarto vertice dei Paesi americani e migliaia di persone marciano verso lo stadio cittadino inneggiando contro il presidente americano George W. Bush e facendo naufragare il progetto Alca, la zona di libero scambio delle Americhe (Área de libre comercio de las Américas) sostenuto dagli Stati Uniti. A Mar del Plata arriva anche anche Maradona, in compagnia del regista Emir Kusturica, che sta girando un film sulla sua vita. Diego mostra una maglietta con su scritto Stop Bush, in cui campeggia una svastica in luogo della “s”. Durante il suo comizio, Chávez lo invita a parlare davanti alla folla. «L'Argentina ha dignità. Cacciamo Bush», saranno le sue parole.

L'autobiografia della nazione argentina

Che quel pomeriggio moscovita, la partita Argentina-Islanda termini uno a uno e che Messi fallisca addirittura un calcio di rigore, sono elementi che accrescono, a discapito del malcapitato Leo, la forza mediatica e carismatica dell’eterno pibe de oro. Le successive partite del mondiale di Russia, da cui l'albiceleste verrà eliminata agli ottavi da una Francia poi campione del mondo, non delineeranno soltanto l'ennesimo fallimento di Messi con la propria nazionale, ma sanciranno l'impossibilità di assistere, per il popolo argentino, a una rinnovata epica dell'eroe plebeo e nazional-popolare capace di guidare la patria alla vittoria contro tutto e tutti. Il fatto che Maradona al termine della partita vada a consolare la pulce triste e affranta certifica la definitiva differenza fra i due numeri dieci.

Nel suo saggio Fútbol y patria (2008), il sociologo Pablo Alabarces dedica un lungo capitolo alla figura di Maradona, individuando nella sua icona pubblica il «centro luminoso» del patriottismo del calcio argentino. Una centralità che ha il suo baricentro nella seconda metà degli anni ‘80, con il trionfo della nazionale al mondiale messicano nel 1986, i successi nazionali e internazionali che Maradona raggiunge con il Napoli di Ferlaino, il suo iperbolico matrimonio allo stadio Luna Park di Buenos Aires del 1989, oggetto di una imponente copertura televisiva. È quella la stagione in cui all’immancabile epica del pobre che accompagna el pelusa fin dai suoi esordi si affianca l’immagine dell’eroe globale che regala gioia al popolo argentino dopo gli anni della dittatura e della guerra alle Malvinas, che fa esplodere di felicità la città di Napoli mentre partecipa alle feste del clan Giuliano, che fonde le sue origini umili con lo status di star internazionale, in cui si affaccia dal balcone della Casa Rosada come novello epigono di Juan Domingo + Evita Perón con la Coppa del Mondo fra le mani.

Nel resto della sua vita, aggiunge Alabarces, Maradona «è stato fatto proprio dall'industria culturale come merce» e ha rappresentato «una specie di significante vuoto, disponibile ad essere riempito a seconda di chi e in quale momento aveva intenzione di farlo proprio».

Vero, verissimo. Ma prima di poter dire l'ultima parola sulla sua straordinaria vita, dobbiamo attendere il giorno in cui non ci sarà più. Sarà la sua morte a dare il senso definitivo alla sua esistenza.

Per il momento, tanti auguri Diego!

Chi ama il calcio, non ti dimentica.

*L'articolo è stato pubblicato il 30 ottobre 2020 sulla rivista Contrasti in occasione dei 60 anni di Diego Armando Maradona.

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