Paolo Rossi non c’è più. Da un paio di giorni, intanto, Pablito si è incamminato lungo i viottoli della Storia. Del mito. Della gloria eterna. Lo ha fatto esalando gli ultimi respiri fra le braccia di sua moglie Federica, su di un letto d’ospedale nella città di Siena. Una volta diffusasi la notizia della sua comparsa, ci hanno pensato i media di tutto il mondo a ricordarne le gesta eroiche, condensate in quella copiosa mezza dozzina di gol distribuiti in ordine decrescente (3-2-1) a Brasile, Polonia e Germania Ovest nel mondiale di Spagna di trentotto anni fa. Paolo Rossi capocannoniere, Pallone d’oro e Italia campione del mondo per la terza volta nella sua storia, la prima in epoca democratica e repubblicana. Era l’anno del signore 1982. Già, il 1982. Un momento non certo qualunque nella recente storia del nostro Paese. Molto probabilmente, un numero a quattro cifre ancora incapace di graffiare l’immaginario collettivo con le vicende che porta nel suo grembo. Se il biennio ’68-’69 e il ’77 — fra violenza politica, terrorismo e conquiste civili — occupano, di diritto, un posto privilegiato nella storia del nostro secolo breve, il 1982 è per tutti l’anno del mondiale di Spagna. Quei leggendari pomeriggi in terra iberica sono un pezzo di storia nazionale e forse hanno la forza di darci il senso di quegli anni. Possono essere la parte per il tutto. Perché sono la colonna sonora e visiva di giorni tortuosi e intricati, in cui un posto da protagonista spetta anche alla storia della mafia e dell’antimafia istituzionale e sociale, chiamate a vivere momenti senza precedenti. Il cinema, straordinario specchio della società e prolifica fonte di conoscenza del passato e del presente se pungolato nelle sue giuste corde, è lì a ricordarcelo. Attraverso il recupero di sequenze, anche minime, in cui elementi reali si mescolano a elementi di finzione. Due mafia movies per esempio - realizzati ad anni distanza fra loro ma che illuminano le vicende di allora - ci aiutano a comprendere cosa hanno significato per noi le magre braccia tese verso il cielo di Paolo Rossi e l’esultanza “fuori protocollo” di Sandro Pertini sugli spalti del Bernabéu, quando scelgono di inserire nella loro narrazione il sudore e le meravigliose giocate dei ragazzi agli ordini del vecio Bearzot. I mondiali come momento realmente collettivo che due cineasti, Giuseppe Ferrara e Marco Bellocchio, hanno fatto propri per dare sostanza al tempo che hanno scelto di raccontare e ricostruire. Cento giorni a Palermo (1984) e Il traditore (2019) i film in questione, dunque. Le vicende del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’eroe nazionale della lotta al terrorismo, nelle vesti di prefetto di Palermo e la parabola criminale di Tommaso Buscetta, il “pentito”, o meglio il collaboratore di giustizia per antonomasia. Le sagome di Lino Ventura e di Pierfrancesco Favino in un gioco di specchi. Un instant movie ansioso di raccontare il presente con stile cronachistico e un biopic di ampio respiro temporale che recupera una figura controversa dell’agire mafioso. Da una parte, i gol di Rossi nella semifinale contro la Polonia raccontati da Nando Martellini chiamati a dialogare con le immagini di una retata dei carabinieri su cui vigila Dalla Chiesa in una Palermo vuota e soleggiata. Dall’altra, la leggendaria parata di Zoff nel vibrante finale di Italia-Brasile ha il compito di disegnare un momento di convivialità nella vita sudamericana di Buscetta immaginata da Bellocchio prima del suo rientro in Italia datato 1984. Perché il 1982 è uno dei tanti anni che hanno trasformato l’Italia, un momento periodizzante, un crinale della Storia. Il 13 settembre è uno dei suoi giorni più importanti perché viene varata la legge n. 646/82, la prima legge antimafia che porta il nome di Virginio Rognoni e Pio La Torre. Solo dieci giorni prima però, il prefetto Dalla Chiesa veniva ucciso insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo. Via Isidoro Carini, teatro dell’eccidio, in quelle ore divenne la cornice in cui sembrava evaporare la speranza dei cittadini onesti per una Sicilia libera dalla dittatura mafiosa. Riavvolgiamo ancora il nastro di quei giorni palermitani. Il 30 aprile, il giorno prima della Festa del lavoro e dell’anniversario della strage di Portella della ginestra, proprio Pio La Torre, segretario del Partito comunista siciliano, veniva ucciso a Palermo in un agguato mafioso insieme al suo autista Rosario Di Salvo. Ventisei giorni prima, a Comiso c’era stata una imponente manifestazione pacifista contro l’installazione di nuovi missili nella locale base militare. La Torre si batteva contro la «trasformazione della Sicilia in un avamposto di guerra» e lottava per un Mediterraneo come «mare di pace» e aveva già evidenziato, anni prima, come la criminalità organizzata stesse mutando «sistemi, metodi, e obiettivi del terrorismo politico». Ai funerali di massa di La Torre e Di Salvo in piazza Politeama non mancò la presenza del capo dello Stato Sandro Pertini. Come non mancò il 4 settembre dello stesso anno ai funerali di Dalla Chiesa. È instancabile la presenza nell’Italia sofferente di quegli anni del corpo e della vibrante voce del presidente partigiano. Dai funerali dell’operaio Guido Rossa a Genova (1979) alla morte di Enrico Berlinguer (1984), dal terremoto dell’Irpinia (1980) alle esequie del giudice Chinnici (1983), passando per la tragedia di Alfredino Rampi a Vermicino (1981). Pertini è il «doloroso pellegrino» lungo i sentieri di un Paese azzannato dalla Guerra Fredda. Ma la vittoria nella finale del Mondiale ’82, ci consegna l’immagine di un lieto e allegro viandante fuori dai confini nazionali al fianco di un esercito in maglia azzurra e pantaloncini bianchi, con le braccia verso il cielo a invocare uno spirito di liberazione dopo il triplice fischio dell’arbitro brasiliano Coelho. Felice epilogo dell’epopea spagnola in cui l’Italia intera si innamorò di Pablito. L’uomo che fece piangere il Brasile. Eroe per sempre giovane e bello.
*L'articolo è stato pubblicato su La Repubblica edizione Palermo del 12 dicembre 2020.
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