Milano: la città che lo spot dell’Amaro Ramazzotti nel 1985 disegnava come “generosa, positiva, ottimista, efficiente”, come “una Milano da vivere, da sognare, […] da bere”. Una videocamera ci accompagna in una casa sporca e trascurata, incasellata in un grigio caseggiato popolare. Lì vive una famiglia di origine siciliana, composta da una mamma e due bambini. Rosetta (interpretata da Valentina Scalici) ha undici anni e una passione per le canzoni di Nino D’Angelo; suo fratello Luciano (Giuseppe Ieracitano) di anni ne ha nove e il suo cuore batte per l’Inter. Di loro padre non si sa nulla. Per ovviare alla miseria che li tormenta, Rosetta è costretta da sua madre a prostituirsi. Prima del rapporto, invoca sommessamente l’angelo custode. Mentre un cliente si accomoda nella sua camera, vediamo Luciano, malinconico e silenzioso, allontanarsi stringendo fra le mani una carta da mille lire. A rompere il perverso equilibrio familiare, l’intervento di una pattuglia. Da quel momento per Luciano e Rosetta inizierà, in compagnia del carabiniere Antonio (Enrico Lo Verso) e di un suo collega, che in realtà presto si dileguerà, un lungo viaggio nella penisola lungo la direttrice Nord-Sud. L’unica speranza dei due fratelli, nell’Italia che vede volgere al termine la Prima Repubblica, è essere accolti in un luogo che sia ospitale. Sono queste le prime intense immagini de Il ladro di bambini, film ispirato a un reale fatto di cronaca girato da Gianni Amelio, che nella primavera del 1992 fu presentato in concorso al 45° Festival di Cannes dove vinse il Grand Prix, per poi fare incetta di premi tra David di Donatello, European Film Awards e Nastro d’argento.
Interrogato a distanza di anni, Il ladro di bambini, al di là del suo contenuto, tramanda alla perfezione lo spirito del tempo in cui è stato realizzato. Enzo Siciliano, sulle colonne de L’Espresso, sottolineò come Gianni Amelio volesse arrivare a un “commosso e doloroso ritratto dell’Italia umile”, Irene Bignardi dalle pagine de La Repubblica definirà l’opera il “capolavoro del neo-neorealismo”. Se il titolo, la presenza dei bambini e “l’amore di cui il regista li copre” – come commentato da Morando Morandini su Il giorno – rimandava a Ladri di biciclette di Vittorio De Sica (premio Oscar nel 1950), le parole che maggiormente colpiscono e trafiggono ancora oggi sono forse quelle di Lietta Tornabuoni apparse su La Stampa: “Certo, è un bellissimo film sul Terzo Mondo ma questo non dipende dal regista, riguarda l’Italia”.
Questi frammenti di carta stampata si collocano temporalmente fra la sentenza di Cassazione sul Maxiprocesso a Cosa Nostra (20 gennaio 1992), lo scoppio di Tangentopoli (17 febbraio), l’omicidio del democristiano Salvo Lima (12 marzo) e la strage di Capaci (23 maggio), cui seguiranno l’elezione a Capo dello Stato di Oscar Luigi Scalfaro, il 25 maggio, e l’eccidio di Via d’Amelio, il 19 luglio. Sono poi sostanzialmente contemporanei al voto politico del 5-6 aprile, che il Corriere della Sera commentò senza indugio come “Elezioni terremoto”, una tornata elettorale che per l’ultima volta vide il simbolo della Democrazia Cristiana stampato su una scheda elettorale, prima che l’unità politica del mondo cattolico si sbriciolasse. Nelle stesse votazioni la Lega, cavalcando un antistatalismo carico di retorica anti-meridionale, era diventato il primo partito in Lombardia. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, la scomparsa del Pci nel 1991 e le inchieste che in quei mesi travolsero (non solo) il Partito socialista, l’ormai instabile Prima Repubblica – nata dalla lotta partigiana e dalla decisione popolare di non essere più una monarchia – crollava su sé stessa ineluttabilmente. Sarebbero poi emerse in modo prepotente una serie di forze politiche – come Forza Italia e Alleanza Nazionale – non legate storicamente al patto costituzionale della resistenza antifascista, modificando a tutti gli effetti l’assetto politico-culturale del Paese.
Rileggere con attenzione i fotogrammi de Il ladro di bambini alla luce di questa repentina e concentrata serie di sconvolgimenti è un’operazione politica che permette di valicare e gestire con equilibrio e consapevolezza l’emotività di quei giorni, andando al di là di quell’immaginario iconografico che coincide in maniera istintiva con il racconto che del 1992 abbiamo fatto in questi lunghi trent’anni: cappi in Parlamento, inquadrature della Procura di Milano, le sagome dei componenti del pool di Mani Pulite, l’icona unificata Falcone-Borsellino.
Amelio indica involontariamente una strada alternativa per superare il luogo comune di quella stagione come l’epoca di Tangentopoli e delle stragi di mafia, perché, come scriverà lo storico Guido Crainz ne Il Paese mancato, “il 1992 è un anno che non si può eludere: è un osservatorio essenziale per guardare anche agli anni Ottanta e all’esito degli anni Settanta. È forse necessario chiedersi se in questo percorso il Palazzo e parte significativa del paese non si siano in realtà ‘avvicinate’, con quei tratti che Pasolini aveva delineato: lo spregio delle regole, il crescente disinteresse per i valori collettivi, un privilegiamento dell’affermazione individuale e di gruppo che considera le norme un impaccio (e tratta chi le difende come un nemico da sconfiggere o da corrompere)”.
Sul fronte strettamente cinematografico, invece, se per Lino Miccichè gli schermi dell’Italia degli anni Ottanta erano stati “opachi”, privi di espressività, difficilmente comprensibili, quelli che accolgono il racconto di questa famiglia anomala e sempre in viaggio sembrano trasformarsi in immagini lucide e brillanti. A scorrere sullo schermo ci sono immagini e parole che ci restituiscono l’idea di un Paese fatto di periferie crudeli, territori maltrattati dall’abusivismo edilizio e dall’industrializzazione, servitori dello Stato infedeli ma anche uomini in divisa scrupolosi e umani. Ma a uscire sconfitta da questa pellicola è soprattutto la famiglia nelle vesti di “società naturale fondata sul matrimonio”, come disegnata dalla Costituzione all’articolo 29. Amelio mette in piedi una storia in cui la cellula stessa della società appare come un luogo da cui fuggire per potersi ricostruire una dignitosa identità. E quando la famiglia è assente, la presenza che accompagna i viaggiatori è quella della Tv. Il piccolo schermo è l’elemento scenografico indiscutibilmente protagonista del film. Non c’è luogo – la casa che diventa teatro dell’abuso, le stazioni ferroviarie, i bar o l’orfanotrofio che rifiuta l’accoglienza ai bambini – che non venga illuminato dal suo bagliore azzurrino, in cui non si avverta il suo sfocato parlottio.
A vestire i panni del “ladro di bambini” è infatti un militare disposto a infrangere il regolamento di servizio per cedere il passo a una compassione non contemplata dalle norme. Antonio, quando torna in Calabria, si fa coscienza critica di fronte a familiari e vecchi amici che soffrono le regole democratiche, a causa di un radicato individualismo vissuto come innocente e legittimo. Il suo collega, poi, che lungo i binari della stazione di Bologna cita noncurante la strage del 2 agosto prima di fuggire via, sembra incarnare lo Stato latitante, che sfugge alle proprie responsabilità, tradendo il proprio ruolo. Il poliziotto che in Sicilia accusa Antonio di aver rubato i bambini, è invece lo Stato che nel sommo rispetto della legge rischia di generare ingiustizia.
È proprio in questa terra, teatro delle stragi che insanguineranno il 1992, che si conclude il viaggio di Antonio, Rosetta e Luciano, una storia di infanzia negata e poi reinventata prima che lo scandalo Tangentopoli travolgesse la politica italiana e che il terrorismo mafioso sprigionasse tutta la sua potenza, riverberando nelle immagini delle televisioni. Sul crinale di due mondi, il road-movie di Gianni Amelio è riuscito a imprimere su pellicola l’immagine di un Paese che non sarebbe stato più lo stesso, mutando, repentinamente e profondamente, le forme del suo essere comunità.
*L'articolo è stato pubblicato su TheVision.com il 15 febbraio 2022.
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