«Se mi dovete fermare, avete due opzioni: o arrestarmi o spararmi». «Se non avessi avuto la scorta, io sarei morta sicuramente». «Ogni volta che metto in moto la macchina chiudo gli occhi. Non si sa mai... si può anche saltare in aria». «Ho dedicato tutta la mia vita a combattere il fenomeno mafioso in Sicilia». Ad esprimersi così, in una sorta di legal reality in sei puntate, sono il giornalista Pino Maniaci e l’ex magistrata Silvana Saguto. Per saperne di più, bisogna andare sulla piattaforma Netflix, dove, da settembre 2021, è disponibile la serie "Vendetta: guerra nell’antimafia", produzione Nutopia-Mon Amour Films e ottima regia a più mani (Ruggero Di Maggio, Davide Gambino, Flaminia Iacoviello, Daniela Volker, Suemay Oram).
I protagonisti della “ritorsione” sono proprio loro, il direttore dell’emittente siciliana Telejato e l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. A fare da interpreti secondari in questa serie categorizzata come crime, una folta schiera di avvocati, pubblici ministeri, giudici, familiari degli imputati, amministratori locali, imprenditori.
Tra i tanti volti con cui il pubblico avrà riacquistato subito confidenza e familiarità, quello dell’ex pubblico ministero Antonio Ingroia, nel ruolo di avvocato difensore di Maniaci. La storia che vede parallelamente – ma con spinosi punti di convergenza – coinvolti Maniaci e la Saguto è nota e la serie la racconta fino ai primi verdetti giudiziari che li riguardano. Da un lato il giornalista dai modi spicci ed energici messo sotto accusa per diffamazione e tentata estorsione. Dall’altro la magistrata elegante e sicura di sé accusata di corruzione, abuso d’ufficio e appropriazione indebita nell’ambito di una gestione dei beni sequestrati che l’ha portata alla rimozione dalla magistratura.
Due icone della cosiddetta “legalità” che finiscono nelle aule di tribunale della Repubblica. Due esperienze che – lo sottolinea la narrazione – affondano inevitabilmente le loro radici nelle epoche storiche, politiche e istituzionali in cui emersero le figure di Pio La Torre, Peppino Impastato, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nei primi gemiti di quell’antimafia che risorse a Palermo tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 per poi fortificarsi e far sentire la propria voce negli anni ’90, nel rinnovato contesto della seconda Repubblica.
La prima puntata della serie lo dice chiaramente, aprendosi con queste scritte in sovraimpressione che accompagnano la presentazione dei personaggi e regalano un quesito agli spettatori: «Dopo le stragi di mafia degli anni '90 il movimento antimafia reagisce con forza. Magistrati e giornalisti svolgono un ruolo da protagonisti in questa lotta. Ma sono tutti veri eroi?».
Del comunista La Torre ascolteremo poi una intervista del 1979 sull’importanza di togliere beni e ricchezze alla criminalità. «Presenteremo precise proposte per dotare polizia e magistratura degli strumenti legali necessari per potere perseguire su questo terreno i presunti mafiosi», dichiarava vigorosamente. Impastato verrà invece evocato attraverso frammenti di una manifestazione in sua memoria. Dei giudici uccisi nel 1992 vedremo gigantografie nello studio di TeleJato, immagini di repertorio e altri frammenti visivi e sonori.
È questo, probabilmente, l’elemento del racconto su cui è più utile ragionare. Di come l’eredità storica, politica e civile di figure che hanno agito – ciascuna con la propria specificità – in nome della fedeltà ad ideali, principi del diritto, ideologie politiche e robuste visioni del mondo abbia alimentato la parabola dei protagonisti di questa serie che ha fatto parlare di sé anche all’estero e, comprensibilmente, ha generato polemiche in Italia.
Dobbiamo farlo adesso, provando a non rimanere schiacciati da storie individuali che, per quanto complesse e articolate, giocoforza distraggono, deconcentrano, sviano offuscando la lucidità del nostro sguardo sullo stato di salute dell’antimafia e sulla capacità di leggere le evoluzioni dei fenomeni mafiosi e di criminalità organizzata degli ultimi decenni.
Siamo entrati infatti da poche settimane nel 2022, un anno ricco di anniversari sul versante della storia della mafia e dell’antimafia, sociale ed istituzionale. Le date da tenere a mente sono tante. Il 20 dicembre del 1962, con la legge n. 1720 veniva istituita la “Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia”. Il 27 ottobre del 1972, a Ragusa, veniva ucciso il giornalista Giovanni Spampinato. Dieci anni più tardi, il 13 settembre 1982, dopo la morte di Pio La Torre e Rosario Di Salvo (30 aprile), a dieci giorni dalla strage di Via Carini (vittime il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo), veniva introdotto l’articolo 416-bis nel codice penale (legge n. 646/1982). Dieci anni più tardi, tra la primavera e l'estate del 1992, dopo la sentenza di Cassazione sul Maxiprocesso (30 gennaio) e l'omicidio di Salvo Lima (12 marzo), le stragi di Capaci e Via d'Amelio. A separare il dolore del 23 maggio da quello del 19 luglio, 57 lunghi giorni.
Ricorrenze che rappresentano un’occasione da non perdere. Per non cadere flebilmente, ancora una volta, in quel citazionismo che ci ricorda il carattere umano della mafia e il suo essere finito, la necessità di parlarne, mostrando contestualmente timore e diffidenza di fronte allo sfuggente concetto racchiuso nell’espressione “professionismo dell’antimafia”.
Per sfuggire, ad ogni modo, a quel paradigma che onora e glorifica le vittime senza approfondire i contesti, le difficoltà, le avversioni che hanno marcato le loro vite.
*L'articolo è stato pubblicato nello spazio il conTesto de L'Espresso il 27 gennaio 2022.
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