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Lionel Messi, the last dance


A ventiquattr’ore dalla chiusura di questo politicamente discusso e discutibile mondiale qatarino, da mettere in archivio per i posteri per quanto visto sul campo, vi è senza dubbio il tentativo di “maradonizzazione” di Lionel Messi. Sottolineava questo processo di mutazione della Pulga nata trentacinque anni fa nella città di Rosario anche Emanuela Audisio sulle colonne de La Repubblica l’11 dicembre. Lo faceva commentando, a freddo, la vittoria dell’Argentina ai calci di rigore contro l’Olanda nei quarti di finale. Un Messi così con la sua Argentina – tra coppe americhe e mondiali – non si era infatti mai visto. Non tanto dal punto di vista tecnico-tattico, quanto dal punto di vista caratteriale. Il mondiale del Qatar ci ha regalato una Pulga a tutto campo padrona indiscussa della pelota e un calciatore capace di “maradoneare”, di invitare alla lotta e sfidare l’avversario, caricandosi sulle spalle il peso di una squadra e di una nazione. La partita della svolta, come si diceva, è stata contro l’Olanda di Louis Van Gaal, convulso e frenetico match chiuso ai calci di rigore dal gol decisivo di Lautaro Martínez. È lì, nella rissa scoppiata a fine gara, nell’immagine degli argentini che esultano in faccia agli olandesi sconfitti, che Messi è diventato davvero il padre dei suoi compagni. È lì che l’opinione pubblica argentina e tutto il popolo albiceleste ha deciso di (ri)affidarsi a Leo Messi come figura neo-maradoniana capace di guidare il proprio popolo al successo creandosi dei nemici. Con le dovute differenze, ovviamente.

I numeri – elementi di cui la narrazione del calcio moderno eccede – fin qui ci hanno sempre raccontato di un atleta capace di battere un record dopo l’altro. Nonostante un’età che inizia a pesare, i cinque mondiali giocati e una bacheca affollatissima, al numero dieci rosarino manca ancora però il trofeo calcistico più prestigioso. Il sogno di chi ama far rotolare una palla su un campo da calcio: la Coppa del mondo.

È qui che c’è sempre stato lo scarto con la figura di Diego Armando Maradona, il calciatore di stampo peronista e più “politico” della storia del calcio. Questione di carattere certo, ma anche di contesto storico. Maradona è il bambino che incarna il mito dell’infanzia povera che riscatta sé e la sua famiglia attraverso l’arte del fútbol. El pibe de oro muove i primi passi nel calcio professionistico del suo Paese negli anni bui della dittatura dei generali. Non partecipa per ragioni anagrafiche al discusso mondiale del 1978, vinto dagli argentini in casa propria sotto lo sguardo tenebroso di Videla. Scrive una pagina di storia del Novecento il 22 giugno del 1986 segnando due gol – “la mano de Dios” e “il gol de secolo” – contro l’Inghilterra a quattro anni dalla guerra delle Falkland/Malvinas nei quarti di México ’86, dove sarà poi campione del mondo. Diventa il personaggio più odiato nel nostro Paese dopo aver portato il Napoli a storici successi (due scudetti, una Coppa Uefa, una Coppa Italia, una Supercoppa) e soprattutto durante i mondiali di Italia ’90, quando batte in semifinale l’Italia, proprio nella città partenopea, portando una Argentina tecnicamente modesta alla finale di Roma contro la Germania Ovest. È poi il nemico giurato della Fifa ad Usa ’94, quando viene squalificato dopo un test anti-doping.

Se Maradona è un figlio del ventesimo secolo che chiude la sua vita nel ventunesimo, Lionel Messi è un’icona tipica del mondo globalizzato. In patria, la Pulga non ha praticamente mai giocato. Il racconto della sua biografia ruoterà per sempre intorno ad una adolescenza trascorsa nella Masía, l’accademia giovanile del Barcellona, dove si cercherà di costruire un formidabile calciatore limitando i suoi problemi di crescita. Riempire la sua biografia di elementi socio-politici è impresa destinata a naufragare. Fino ad oggi, su di lui, ha pesato nel confronto con Maradona l’aspetto caratteriale e politico. In una battuta, l’assenza di carisma. In una società futbolera e di miti come quella argentina una mancanza imperdonabile.

Ma la grande occasione, dopo la finale di Brasile 2014 persa contro la Germania, è finalmente di novo a disposizione di Messi (e compagni). E probabilmente per lui sarà, in un modo o nell’altro, the last dance. L’estremo ostacolo sulla strada della consacrazione è la possente Francia dove brilla la stella di Kylian Mbappé, compagno di Messi nel Paris Saint-Germain, club di proprietà qatarina. L’appuntamento con la storia del calcio è per domani alle ore 16 italiane. Occhi puntati sulla città e lo stadio di Lusail, il disco volante a forma di ciotola per datteri. Per scrivere un nuovo capitolo della biografia di Lionel Messi e salutare il mondiale dello sfruttamento, della negazione dei diritti umani e dello sportwashing. Il primo vissuto dalla morte di Diego Armando Maradona.

*L'articolo è stato pubblicato su Gli Stati Generali il 17 dicembre 2022

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