Bernardini mette nero su bianco la sua esperienza didattico-democratica di primi anni ‘60 nell’allora scuola «Vittorio Veneto» di Via Pomona, inglobata oggi in un istituto intitolato a Giorgio Perlasca. Il libro viene pubblicato nel 1968 dalla casa editrice La Nuova Italia. Nella prefazione, Gianni Rodari scriverà: «Si intitola Un anno a Pietralata: più volte, però, si sospetta che Un agnello tra i lupi sarebbe stato un titolo più adeguato, tale il contrasto tra il candore del maestro e la violenta malizia dell’ambiente in cui si muove, senza mai arrendersi. Per i suoi colleghi la borgata, i ragazzi, le loro famiglie sono catalogati in blocco in una definizione spregiativa: "Che gentaglia"». A suggerirne la lettura a De Seta nel 1969, è Ugo Pirro. Di scuola, il regista di Banditi a Orgosolo, Un uomo a metà e L’Invitata ne sa poco o niente. Due mesi dopo però, colpito da quelle pagine, firma un accordo con la Rai per tirarne fuori una sceneggiatura. De Seta inizia a leggere don Milani e Freinet. Va a Piàdena da Mario Lodi, autore de Il Paese sbagliato, e gira le scuole d’avanguardia italiane.
Nei primi mesi del 1970, dà il via a un lavoro di inchiesta sul territorio Sud-Est di Roma. È indeciso su dove «situare» le riprese e il «romanesco» non lo convince. Va nella sede del Pci di Tiburtino III. Fa visita a maestri e insegnanti. Si reca all’Acquedotto Felice, dove don Roberto Sardelli ha fondato la «Scuola 725» e in un altro doposcuola, quello promosso da Giovanni Mazzetti al Borghetto Prenestino. Incontra il maestro Bernardini, in quel momento in servizio a Bagni di Tivoli. Un «inestimabile aiuto» – scrive De Seta nei suoi diari – arriva da Enzo Rossi e decide che sarà il Tiburtino III con le sue «casette dell’epoca fascista, tutte allineate, che sembrano un lager», il contesto dove far vivere l’avventura cinematografica e scolastica di un gruppo di ragazzi di borgata divisi tra l’esigenza di lavorare e il diritto allo studio. Mancano ancora i componenti della troupe, l’attore-maestro e loro, gli studenti. De Seta vuole una «classe difficile» e ragazzi con «personalità», «vivaci e ribelli» e per questo batte per mesi le strade di Tiburtino III, Pietralata e La Torraccia, dove, tra le baracche «ci sta gente di Cassino emigrata dopo la guerra e gruppi di napoletani».
Scegliere non è facile e i problemi non mancano, su tutti la frequenza scolastica e le autorizzazioni dei familiari. Piano piano, la classe, una quinta elementare, prende forma. A recitare saranno in sedici. Tra loro Remo, Romano e Franco della Torraccia, Sergio Piazza, Massimo Bonini, i fratelli Giancarlo e Sergio Valente. Per la parte del maestro D’Angelo, viene scelto Bruno Cirino (1936-1981), attore napoletano con «la commedia dell’arte nel sangue». A lui De Seta lascia «autonomia d’azione e di linguaggio» nell’affrontare i temi prefissati. Cirino si cala perfettamente in questo sdoppiamento tra finzione e realtà, da non distinguere più se reciti il ruolo dell’insegnante o sia lui stesso un vero e proprio maestro capace di fare scuola davanti la macchina da presa. C’è la necessità di avere anche un consulente pedagogico e viene così ingaggiato Francesco Tonucci, ricercatore del Cnr. Sarà lui a consigliare di inserire nella sceneggiatura temi come «il furto e la delinquenza» o «la casa e il quartiere». L’obiettivo è portare, come nell’opera di Bernardini, la vita nella scuola. La lavorazione del Diario… inizia nell’aprile del 1971. De Seta, come direttore della fotografia, vuole Luciano Tovoli. Con lui ha già lavorato, ma in quel momento è impegnato in un altro film.
A distanza di 52 anni, Tovoli ha un ricordo vivido di quei giorni e ci racconta: «Dopo una settimana di riprese, Vittorio mi chiamò disperato, dicendomi che il film non si poteva fare. Gli dissi che l’unica strada era mettere una grande luce al centro dell’aula, utilizzare l’Eclair (una macchina da 16mm molto maneggevole) e far lavorare nell’aula una troupe ridottissima composta da operatore, assistente e dal fonico capace di girare a 360°. Chiesi a Vittorio di rimanere nel corridoio e di fare una prova. Io avrei girato liberamente ciò che volevo. Quando vedemmo il primo materiale, Vittorio si mise a piangere, esclamando: "Ma allora si può fare!". Io gli dissi che si poteva fare solo lavorando con macchina a mano, senza cavalletti e senza ciak. Per questo, e Vittorio lo ha detto, la regia bisognava firmarla in due. In Diario di un maestro, ero sempre pronto, come un falco, a girare qualcosa, ma il mio lavoro è andato al di là della fotografia. A me interessava catturare i volti di questi bambini che cercavano di uscire dal loro destino attraverso la scuola, la loro intelligenza naturale, il loro fiuto "animalesco" nel leggere le situazioni e lo splendore delle loro risposte».
Le riprese terminano a fine luglio, con un bottino di 36.000 metri di pellicola e 50 ore di materiale. Il montaggio dello sceneggiato inizia nell’agosto del 1971 e termina nell’ottobre del 1972, due mesi dopo la tragica morte dell’alunno-attore Sergio Valente. In quei tredici mesi prende forma anche la definitiva sceneggiatura di un prodotto Tv capace di imporsi come una sperimentale modalità produttiva e una reale e innovativa esperienza scolastico-pedagogica in cui, grazie a De Seta e il suo gruppo di lavoro (le musiche sono di Fiorenzo Carpi), gioco e realtà non hanno confini. Nel corso dei quattro episodi assistiamo alla trasformazione fisica e d’uso dell’aula (dai banchi ai tavoli affinché sia uno spazio di collaborazione), a testimoni che entrano in aula a raccontare le loro esperienze di vita (un ladro, i genitori degli alunni), a creazioni collettive (cartelloni, giornalini, elementi di arredo), a visite del maestro a casa dei suoi alunni, a esplorazioni del territorio circostante e a una gita nel cuore di Roma magistralmente inseguita dalla macchina a mano di Luciano Tovoli.
Al centro di tutto ci sono gli studenti con i loro bisogni e la loro quotidianità. La messa in onda di Diario di un maestro è un successo di pubblico e il dibattito sulla scuola si rafforza nel Paese. Sono passati oltre dieci anni da quando Albino Bernardini ha messo piede a Pietralata, un territorio di cui non aveva mai sentito parlare. Sapeva soltanto che tra la sua Sardegna e le borgate romane «non c’era tanta differenza nel tenore di vita».
*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias l'11 febbraio 2023.
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