Passa ai contenuti principali

Così Damiani raccontò la Sicilia di piombo


Per Pier Paolo Pasolini era «un amaro moralista assettato di vecchia purezza». Per Ennio Flaiano, invece, «il solo dei registi impegnati» da ammirare «sinceramente» per lo «stile “naturale”» e per il «rifuggire da tutte le leziosaggini». Per la storia del nostro cinema, infine, il più americano dei cineasti made in Italy, un autore capace di attraversare più generi dedicandosi poi, tra piccolo e grande schermo, al racconto di quella straordinaria macchina spettacolare e narrativa che è (stata) e sarà la mafia. Questo e mille altre cose è stato Damiano Damiani, il regista, sceneggiatore e pittore friulano scomparso il 7 marzo di dieci anni fa a Roma, all’età di 91 anni, uno dei primi assieme a Francesco Rosi a portare le storie di mafia sullo schermo. Nato a Pasiano di Pordenone nel 1922, Damiani scopre la Sicilia e la  lega alla sua carriera grazie alla lettura de Il giorno della civetta, il romanzo più famoso di Leonardo Sciascia pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1961. A invitarlo a immergersi in quelle pagine sono i produttori Ermanno Donati e Luigi Carpentieri, intenzionati a portare sul grande schermo quel capolavoro di letteratura poliziesca, dato alle stampe un anno prima dell’istituzione della “Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia” (20 dicembre 1962). Il film, girato nella Partinico cara a Danilo Dolci, uscirà nelle sale italiane nel 1968. A firmarne la sceneggiatura sono Ugo Pirro e lo stesso Damiani, già avvezzo alla traduzione cinematografica di opere letterarie (L’isola di Arturo, 1962 e La noia, 1963). I protagonisti del film saranno Franco Nero (il capitano dei carabinieri Bellodi), Claudia Cardinale (la vedova di mafia Rosa Nicolosi) e Lee J. Cobb (il capomafia don Mariano Arena). Tre volti che in quegli anni stringono – come lo stesso Damiani, fresco reduce dal politicizzato Quién sabe? (1967) – un legame robusto con il genere western. Intervistato per la Rai nel 1984 da un giovane Giuseppe Tornatore, Damiani dirà: «Io credo che Il giorno della civetta sia stato piuttosto fedele alla sostanza del romanzo, perché già costruito da un punto di vista cinematografico e dei fatti in una forma molto solida Noi abbiamo ampliato il personaggio di Rosa Nicolosi perché emblematico e metaforico e significativo della condizione della donna siciliana». E su questo tema di grande impatto civile e democratico, Damiani porterà ancora la sua attenzione ne La moglie più bella (1970) – esordio cinematografico di Ornella Muti – ispirato al caso di Franca Viola, la giovane donna di Alcamo nata in una famiglia di mezzadri che nel 1965, a soli 18 anni, aveva rifiutato di contrarre matrimonio, denunciandolo, con Filippo Melodia, giovane di famiglia mafiosa che l’aveva rapita. La macchina da presa di Damiani ormai ha il cavalletto ben piantato in Sicilia e nella narrazione delle profonde trasformazioni che il suo corpo sociale vive in quegli impetuosi anni. Arriva così un nuovo mafia-movie: Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971). Un poliziesco che apre le strade al poliziottesco. Una pellicola di forte atmosfera giudiziaria, ambientazione urbana e respiro storico – il richiamo ai sindacalisti uccisi per mano mafiosa lungo tutto il secondo dopoguerra sono lì a dimostrarlo – con il titolo che strizza l’occhio al recente successo di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri. Un’opera di grande impegno civile con la giusta dose di spettacolo nello stile tipico di Damiani capace di raccontare la mafia in una prospettiva forte e rinnovata: un’associazione di persone dotata di forti legami sociali che ha lo scopo di impadronirsi, con ogni mezzo, del settore edilizio. L’attore a cui Damiani lega il suo cinema di quegli anni è Franco Nero, che dirigerà ancora in L’istruttoria è chiusa: dimentichi (1972) e Perché si uccide un magistrato? (1975), titoli che affrontano la questione della giustizia, del carcere, della pena mentre la violenza mafiosa cresce, giorno dopo giorno, negli anni di piombo palermitani. Gli anni ’70 siciliani di Damiani si chiudono invece sulle immagini di Un uomo in ginocchio, storia di mafia melodrammatica con Giuliano Gemma protagonista e un ruolo di sicario per Michele Placido, altro attore a cui il regista friulano legherà la sua successiva e importante narrazione di mafia. Pochi anni dopo, Damiani avrà infatti il merito di portare il racconto della mafia sul piccolo schermo della Rai, la Tv di Stato, quando firmerà nel 1984 la regia della prima stagione de La Piovra, sceneggiatura del premio Oscar Ennio De Concini. Lo sceneggiato che diventerà un modello di prodotto Tv da esportazione, muove la narrazione in una indefinita ma riconoscibile Sicilia occidentale e fornirà all’opinione pubblica italiana, attraverso il volto di Michele Placido nelle vesti del commissario Cattani, nuove parole e nuovi simboli per raccontare l’universo mafioso. Come accennato, siamo nel 1984, l’anno dell’arresto in Brasile e della collaborazione con la giustizia di Tommaso Buscetta, due anni prima dell’inizio del Maxiprocesso a Cosa Nostra, straordinario momento della giustizia italiana capace di distruggere il mito della invincibilità mafiosa. Nel bel mezzo di queste date che segnano la storia del Paese, Damiani girerà Pizza Connection, un nuovo mafia-movie che deve il titolo a una inchiesta giudiziaria condotta tra Sicilia e Stati Uniti, in cui Placido è stavolta un killer di mafia di stanza a New York costretto a tornare a Palermo per organizzare un attentato contro uno zelante procuratore della Repubblica. L’attentato immaginato da Damiani sarà messo in scena e realizzato attraverso un bazooka. Una sequenza che diviene traduzione visuale perfetta della Palermo-Beirut di quegli anni e che si trasformerà in fonte storica per studiare e analizzare il clima della città in quei terribili giorni. Se le bombe contro Falcone, Borsellino e le loro scorte sembrano temporalmente lontani, quella contro il giudice Chinnici, saltato in aria nel luglio del 1983 nella strage di Via Pipitone Federico, era invece lì ad interrogare la coscienza democratica del Paese. Con il suo drammatico odore di carne umana ridotta in cenere che Damiani avvertì e raccontò sul grande schermo. Nel suo pieno stile, asciutto e spettacolare.

L'articolo è stato pubblicato su La Repubblica-Edizione Palermo il 7 marzo 2023

Commenti

Post popolari in questo blog

Napoli, Baires: Maradonologia. Una bella chiacchierata con Pablo Alabarces

«Fútbol y Patria». «Peronistas, Populistas y Plebeyos». «Historia mínima del fútbol en América Latina». Questi sono solo tre titoli di una ricca produzione saggistica fatta di cronache politico-culturali e indagini sociologiche e letterarie. Chi vuole sapere di calcio e cultura popolare sudamericana deve passare per gli scritti di Pablo Alabarces e capirà qualcosa di cantanti mitologici come Palito Ortega, rock, tifoserie, sistema mediatico, violenza da stadio. Sociologo, argentino classe 1961, Alabarces è titolare di cattedra presso la UBA, l’Università di Buenos Aires. Lo incontriamo a Roma, zona Stazione Termini. Pablo è da poco rientrato nella capitale al termine di un bel soggiorno in una Napoli ebbra di festa per lo scudetto e dopo aver visitato Viggianello, borgo della Basilicata ai piedi del Pollino. «È la quinta volta che sono in Italia. Non ero mai stato nel paese dove nel 1882 nacque Antonio Carmelo Oliveto, mio nonno materno», ci racconta mentre ci incamminiamo verso Piazza

Remo Rapino, un undici fantastico e fantasioso

La storia del calcio è fatta anche di formazioni recitate tutte d’un fiato. Dal glorioso e drammatico incipit Bacigalupo-Ballarin-Maroso del Grande Torino al Zoff-Gentile-Cabrini – buono per la Juve di stampo trapattoniano e per l’Italia di Spagna ’82 – passando per il Sarti-Burgnich-Facchetti della Grande Inter del mago Herrera. Se, citando Eduardo Galeano oltre ad essere mendicanti di buon calcio, lo fossimo anche di letteratura ci sarebbe un nuovo undici da imparare a memoria. Un undici fantastico e fantasioso agli ordini dell’allenatore-partigiano Oliviero che fa così: Milo, Glauco, Osso Nilton, Treccani, Giuseppe, Wagner, Berto Dylan, Efrem Giresse, Pablo, Baffino, Nadir. Una squadra-romanzo piena del sapore della vita, che si confessa in prima persona. A immaginarla in Fubbàll (Minimum Fax, pp. 148, 16 euro) è stato Remo Rapino (1951), insegnante di storia e filosofia di stanza nell’abruzzese Lanciano e già premio Campiello 2020 con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio . 

Farsi una foto con Dios. L'intervista al fotografo Carlo Rainone

Sette anni fa Carlo Rainone (Palma Campania, 1989), fotografo-documentarista con un curriculum fatto di studi e collaborazioni internazionali, decide di scavare nel ventre della Napoli degli anni ’80, quelli, non solo, del dopo-terremoto, delle guerre di camorra e del contrabbando. Un immaginario che il cinema di questi anni sta riportando in superficie, dal Sorrentino di È stata la mano di Dio al Mixed by Erri di Sidney Sibilia senza dimenticare il Piano piano di Nicola Prosatore. L’obiettivo dell’indagine è assoluto, laborioso e faticoso ma il confronto costante con il fotografo Michel Campeau è di grande supporto. Bisogna infatti scovare la «foto con Maradona», il re della Napoli calcistica per sette tortuosi anni, il patrono pagano della moderna Partenope. Rainone inizia ad inseguire fotografie già scattate. Icone conservate in album di famiglia o piegate in portafogli, appese sui muri di negozi e laboratori, case, pizzerie e ristoranti. La consapevolezza sta tutta nelle parole