Passa ai contenuti principali

Larraín, il corpo e la storia. Recensione al volume di Emanuele Rauco




Il corpo e la storia. Queste le parole chiave con cui si sviluppa l’analisi della cinematografia di Pablo Larraín, autore cileno in concorso a Venezia 2023 con El Conde, commedia dark/horror e probabile metafora del Cile contemporaneo con il dittatore Pinochet nei panni di un vampiro.

A sezionare la complessa e ricca filmografia di questo regista nato a Santiago nel 1976, tre anni dopo il golpe ai danni del Cile democratico targato Salvador Allende Gossens, è Emanuele Rauco, critico cinematografico, membro della Commissione di selezione del Festival di Venezia e da poche settimane direttore artistico della rassegna in riva al Lago Trasimeno «Castiglione del Cinema».

La prefazione del suo volume (Pablo Larraín. Il corpo e la storia, pp. 150, 16 euro, Bietti) è affidata invece alla firma di Alberto Barbera. Nelle prime pagine, il direttore artistico della Mostra di Venezia sottolinea come il lavoro compiuto vada ad indagare, attraverso un suo esponente di respiro mondiale, una cinematografia, quella cilena, pressoché trascurata nel nostro Paese. Eccezion fatta forse per registi di culto e militanti come Miguel Littín e Patricio Guzmán o per quel pugno di autori di fama internazionale (Raoul Ruiz, Alejandro Jodorowski, Alejandro Amenábar) costretti all’esilio durante gli anni bui della dittatura.

«Pablo Larraín, visto dal Cile, è un cineasta talentuoso e allo stesso tempo controverso non solo perché il suo cinema si è misurato con il nostro passato più doloroso, ma anche per la sua estrazione familiare. Larraín è nato in una famiglia di «classe alta» e politicamente da sempre legata alla destra cilena. Possiamo considerarlo una sorta di «pecora nera» della famiglia ma questo fattore biografico genera divisione. Inoltre, con suo fratello Juan de Dios è il titolare della Fábula, la casa di produzione dei suoi film. In Cile, c’è un rapporto di amore-odio con la sua figura», ci racconta Víctor Hugo Ortega C., professore di cinema presso la Universidad Mayor di Santiago. Ortega offre al nostro sguardo elementi che il volume ha il merito di tenere in considerazione, puntando con forza lo sguardo su appassionanti nodi concettuali.


Il corpo e la storia, si diceva in apertura. Già. Proprio su di essi si struttura il cinema di Pablo Larraín che Rauco, a sua volta – grazie anche a un dialogo diretto con il regista che impreziosisce la lettura del saggio – scompone ed esamina lungo più prospettive: dall’analisi storica a quella contenutistica, dalla scelta delle inquadrature a quella degli obiettivi.

Assi che nel libro tendono a convergere grazie all’analisi di undici opere (dieci film e una serie Tv, La storia di Lisey) realizzate tra il 2008 e i nostri giorni. Un’operazione che ci restituisce dimensioni fra loro dialoganti e così denominate: «Il corpo della storia» e «La storia del corpo». È al loro interno che l’autore mescola un tema da sempre oggetto di discussione medico-giuridico-filosofica e una disciplina che si misura con lo scorrere del tempo, il suo racconto, la sua analisi che nella dimensione cinematografica trova un fertile e incandescente terreno di discorso pubblico.

Ancor di più in questi giorni in cui – insieme alle polemiche politico-culturali di matrice veneziana (vedi il caso Comandante di Edoardo De Angelis) – ricorre il cinquantesimo anniversario del golpe datato 11 settembre 1973. Un’occasione per far vivere di nuovi significati, insieme alla visione di El Conde (su Netflix dal 15 settembre), la rilettura della cosiddetta «trilogia del regime».

Un corpus di opere composta da: Tony Manero (2008), il film che ha permesso a Larraín di farsi conoscere a livello internazionale grazie alla storia di un serial killer (interpretato da Alfredo Castro, suo attore simbolo) che negli anni della dittatura è ossessionato dal John Travolta de La febbre del sabato sera; Post Mortem (2010), opera che mette al centro della narrazione «la figura, o meglio il cadavere» di Allende sottoposto a «crudele» autopsia; No. I giorni dell’arcobaleno (2012), prima co-produzione con Francia e Stati Uniti, non un «dramma politico» ma «un film sulla politica e sui suoi meccanismi comunicativi» con Gael García Bernal nei panni di un pubblicitario rientrato dall’esilio.

Con l’ultimo atto della trilogia, Larraín conquista «l’attenzione di un pubblico non strettamente cinefilo» e contestualmente inizia a «lavorare a un diverso livello di ampiezza e complessità produttive».

Dopo lo sferzante attacco alla chiesa cilena con Il Club – film che affronta la questione pedofilia (Orso d’argento a Berlino 2015) – Larraín partorisce una nuova trilogia su tre icone storiche e la loro moderna «mitologia», tre riletture del biopic «sul confronto tra identità pubblica e privata»: Pablo Neruda, Jacqueline Kennedy e Lady Diana.

Per raccontarcele Rauco sceglie di concentrarsi su precisi elementi: la pancia del poeta (Neruda, 2016); il sangue e il cervello di JFK (Jackie, 2016); le viscere della principessa «assediata» che «non vuole essere una diva» (Spencer, 2021). Particolari materici osservati nella loro dimensione storica e cinematografica.

*L'articolo è stato pubblicato su Il Manifesto-Alias il 16 settembre 2023.

Commenti

Post popolari in questo blog

«E a Palermo che birra bevete?»

Palermo, ore 22 circa È sera, ma fa caldo come se fosse mezzogiorno. Siamo ad agosto. Alessandra è andata a dormire. È stanca. Oggi è stato un lungo giorno. Parecchie ore prima Dormiamo in un ostello nel cuore di Ballarò. Dalla stanza da letto si vede la cupola della chiesa del Carmine. Dalle macchine e dalle finestre la colonna sonora che attraversa la città è la musica napoletana neomelodica. Sui muri scorticati e degradati decine e decine di manifesti annunciano i concerti di Gianni Celeste, Mauro Nardi, del piccolo Patrizio, di Gianni Antonio, Gianni Nani, Marco Bologna, Gianni Vezzosi, Tony Colombo e altri ancora. Nino D’Angelo è stato qui a cantare a luglio per la festa di Santa Rosalia. La ragazza della reception ci dice che Nino è un mito a Palermo. Prendiamo la macchina. Oggi dobbiamo andare a Corleone e Portella della Ginestra. Sentivo la necessità vitale di vedere il paese di Liggio, Riina e Bagarella. Dovevo andare a vedere il luogo in cui erano stati uccisi qu...

«L'è lü!». E il mostro fu sbattuto in prima pagina...

Sei i protagonisti di una grottesca scena messa su dallo Stato italiano. E' il 16 dicembre del 1969 a Roma, in tribunale. Quattro poliziotti ben vestiti, pettinati e con la barba fatta; un ballerino anarchico, con la barba incolta, stravolto dopo una notte insonne per via di un interrogatorio e un tassista milanese. «L'è lü (E' lui)!», escalama il tassista Cornelio Rolandi. «Ma m'hai guardato bene?», ribatte l'anarchico Pietro Valpreda. «Bè, se non è lui, chi'l gh'è no», si convince il Rolandi. E così il mostro fu sbattuto in prima pagina. Il Rolandi si era presentato dai carabinieri di Milano la mattina del 15 dicembre, mentre si svolgevano i funerali di Piazza Fontana, convinto di aver trasportato sul suo taxi il responsabile della strage alla Banca dell'Agricoltura. La sua macchina era posteggiata a poco più di 100 metri dalla filiale. Un uomo con una valigetta aveva chiesto di portarlo nei pressi della Banca e di aspettarlo lì. Pochi minuti dopo era ...

“La piovra” in onda e la tv battezzò il racconto della mafia

Rai Uno, 11 marzo 1984, ore 20.30. Dopo il Tg, il primo canale della Radio televisione italiana presenta «un film in sei puntate». «Panorami siciliani profondi: un commissario venuto dal Nord indaga sulla morte di un collega, sulla figlia rapita, su una ragazza misteriosa e gattopardesca dedita alla droga, su fatti che non riesce a spiegare, su altri fatti che invece sa spiegarsi benissimo ma che non può provare». Così si legge sul Radiocorriere di quella settimana. Si tratta del primo episodio di uno sceneggiato che, ibridando generi differenti, conterà dieci edizioni. Il pubblico italiano, nell’anno del trentennale del piccolo schermo, guarda «una storia esemplare di mafia» che segnerà per sempre l’immaginario nazionale e internazionale sulla rappresentazione del grande crimine e della Sicilia. La trama di quella prima stagione l’hanno scritta Nicola Badalucco, trapanese, Lucio Battistrada e Massimo De Rita. La sceneggiatura è del premio Oscar Ennio De Concini. Le musiche di Riz Orto...