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“La piovra” in onda e la tv battezzò il racconto della mafia


Rai Uno, 11 marzo 1984, ore 20.30. Dopo il Tg, il primo canale della Radio televisione italiana presenta «un film in sei puntate». «Panorami siciliani profondi: un commissario venuto dal Nord indaga sulla morte di un collega, sulla figlia rapita, su una ragazza misteriosa e gattopardesca dedita alla droga, su fatti che non riesce a spiegare, su altri fatti che invece sa spiegarsi benissimo ma che non può provare». Così si legge sul Radiocorriere di quella settimana. Si tratta del primo episodio di uno sceneggiato che, ibridando generi differenti, conterà dieci edizioni. Il pubblico italiano, nell’anno del trentennale del piccolo schermo, guarda «una storia esemplare di mafia» che segnerà per sempre l’immaginario nazionale e internazionale sulla rappresentazione del grande crimine e della Sicilia. La trama di quella prima stagione l’hanno scritta Nicola Badalucco, trapanese, Lucio Battistrada e Massimo De Rita. La sceneggiatura è del premio Oscar Ennio De Concini. Le musiche di Riz Ortolani, poi verranno quelle di Ennio Morricone. La regia è del friulano Damiano Damiani, uno che Cosa nostra l’ha già saputa raccontare sul grande schermo. Il giorno della civetta (1968) è solo il suo titolo più famoso. Stavolta però siamo in tv. E a vedere la luce attraverso il tubo catodico è La piovra. Tanti padri per questo sceneggiato, dunque, ma anche un “padrino”, lo storico dirigente Rai Sergio Silva. E poi, a partire da La piovra 3, un uomo dietro la macchina da presa che firmerà ben sei edizioni, il regista Luigi Perelli che racconta: «Venivo dal cinema politico. Mi ero occupato di Sicilia negli anni ’60, dopo la prima guerra di mafia, nel documentario Feroce, dolce Palermo con il regista Antonio Bertini. Nella mia carriera La piovra ha rappresentato non solo un grande successo personale ma una ulteriore crescita in termini politici». La piovra segna dunque la trasposizione dal grande al piccolo schermo del cinema di impegno civile che tanta fortuna aveva avuto nei decenni precedenti. Un evento Tv sotto forma di melodramma sociale che si ripeterà nel tempo portando nelle case degli italiani l’ombra di un pachidermico mollusco armato di tentacoli. Un mostro evocante un totalitario senso di minaccia rappresentato dalla mafia. Questo e mille altre cose è stata La piovra, per lungo tempo lo sceneggiato italiano più famoso al mondo, esempio di glocalismo narrativo, capace di raccontare la presenza mafiosa nei contesti internazionali, illuminando i lati oscuri della finanza e della massoneria, i traffici di droga, armi e rifiuti tossici, la guerra – le guerre – prima della caduta del Muro di Berlino. Per dirla con Milly Buonanno, l’11 marzo 1984 prendeva il via «la carriera politica di una fiction popolare», per la storia della Tv un prodotto che la sociologa definirà nei suoi studi «l’antidoto italiano a Dallas». Dice ancora Perelli: «Abbiamo sempre dato attenzione al ritmo del racconto. In quell’epoca ci confrontavamo anche con il cinema hollywoodiano che veniva trasmesso nelle tv private. Volevamo fare qualcosa di nuovo e di unico nella tv italiana, con la convinzione di fare qualcosa di importante per il Paese. Dalla nostra parte, abbiamo avuto l’appoggio della Rai e di coproduzioni internazionali che ci hanno permesso di avere grandi attori e attrici stranieri». Siamo in un’era in cui i palinsesti Tv fanno incetta di serial made in Usa, telenovele di matrice sudamericana e cartoon giapponesi. Siamo anche nell’epoca in cui è il piccolo schermo il luogo in cui accadono le cose. Da quel momento, l’opinione pubblica ha simbolo unificante con cui rappresentare la mafia. Da un lato – dalla terza stagione per esattezza – il villain per definizione, Tano Cariddi, affidato al corpo e alla voce di Remo Girone, Tano ne La piovra 10 dirà: «Non serve più fare la guerra allo Stato. Basta usare le leggi che ci sono e costringere i poteri centrali a farne delle nuove su misura per noi». Dall’altro, l’eroe positivo in cui identificarsi: il commissario Cattani, interpretato da Michele Placido, «il modello televisivo dell’eroe antimafia di fine Novecento», secondo lo storico Marcello Ravveduto. Un personaggio con cui gli italiani familiarizzano da subito in quel 1984, anno dell’arresto di Buscetta, dell’omicidio Fava e della strage del Rapido 904. Due anni prima (13 settembre 1982) è stato introdotto l’articolo 416-bis nel codice penale. Neanche ventiquattro mesi e nel febbraio 1986 ha inizio il maxiprocesso a Cosa Nostra. Vedremo così i mafiosi, quelli veri, in tv, rispondere alle domande dei magistrati o discutere fra loro, come nello scontro Buscetta-Calò. La violenza stragista del ’92-’93 era ancora lontana ma per raccontare la strategia mafiosa di allora si faceva strada l’urgenza di rinnovare paradigmi e simbolismi. La stagione dei “cadaveri eccellenti” nata negli anni ’70 non accennava a terminare. Tra i morti per mano mafiosa c’è un commissario di polizia che la fotografa Letizia Battaglia aveva ritratto più volte. Si chiamava Boris Giuliano. Lo avevano freddato una mattina d’estate del 1979 in un bar di Palermo. La sua tragica vicenda è il nucleo su cui si sviluppa il concept de La piovra che vede il suo apogeo nella quarta stagione con la violentissima morte del commissario Cattani. «Il lieto fine non era possibile per la sua parabola. – sostiene Perelli – Nell’immaginarne la morte pensai alla figura di Zapata nel film di Elia Kazan, quando viene crivellato di colpi. Volevamo celebrare un eroe, un eroico uomo delle istituzioni. In quegli anni tanti uomini dello Stato non erano più percepiti come difensori dell’ordine costituito e delle classi dominanti ma come uomini che combattevano il potere mafioso per una Sicilia aperta e democratica, per la gente, per l’avvenire. Non è un caso che, vediamo poi la giudice Silvia Conti (Patricia Millardet), che giura su quel cadavere di vendicarlo portando avanti la sua missione». Era il 20 marzo 1989. Sintonizzati su Rai Uno, c’erano oltre 17 milioni di spettatori. Per vivere un dolore collettivo frutto di un’inestricabile dinamica realtà-finzione.

*L'articolo è stato pubblicato su La Repubblica-Edizione Palermo il 12 marzo 2024.

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