Stavolta, agli ordini dell’ex ufficiale alpino che aveva conosciuto il fango nelle trincee della Grande Guerra, c’è un gruppo di giovani universitari che non hanno mai giocato per la nazionale maggiore. Nella compagine azzurra, spiccano i nomi di tre calciatori che con Pozzo trionferanno ai mondiali di Francia 1938: il bresciano Ugo Locatelli, i terzini in forza alla Juventus Alfredo Foni e Pietro Rava, capitano della selezione olimpica.
A rubare la scena in quel pomeriggio berlinese, sarà però, ancora una volta un giocatore che, per via di una miopia, è costretto a giocare con degli occhiali: Annibale Frossi, ala destra de L’Aquila e poi dell’Ambrosiana-Inter. Mancano soltanto ventiquattro ore perché l’undicesima olimpiade dell’era moderna – raccontata in Olympia, il leggendario documentario di Leni Riefenstahl, «la regista di Hitler» (1938) – si avvii alla cerimonia di chiusura. L’obiettivo di quella edizione – l’ultima prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale – non era soltanto celebrare gli atleti più veloci, quelli capaci di volare più in alto di tutti, i più forti secondo il celebre motto del barone De Coubertin («Citius, Altius, Fortius»), ma la supremazia della razza ariana.
A rovinare il progetto dei gerarchi nazisti, ci penseranno i lampi color ebano del velocista americano Jesse Owens che si aggiudicherà quattro medaglie d’oro (100 e 200 metri, salto in lungo e staffetta 4 x 100 m). Per la prima volta nella storia dei giochi olimpici, erano stati lanciati appelli affinché la manifestazione fosse boicottata. I tentativi non andarono a buon fine ma avrebbero lasciato significative tracce nella storia dello sport.
Nel cielo che domina la prussiana Berlino, in quel 15 agosto di ottantotto anni fa, mentre i giocatori di Italia e Austria scendono in campo, le nuvole sono accarezzate da venti di guerra. Pochi mesi prima, Benito Mussolini, grazie alla conquista dell’Etiopia del 5 maggio 1936, aveva annunciato dal balcone di Piazza Venezia in Roma che l’Italia aveva «finalmente» il suo impero. Sull’onda del massimo consenso per il regime fascista, l’Italia in camicia nera aveva partecipato a quelle che la storia avrebbe raccontato come le «olimpiadi dei nazisti», straordinaria occasione di propaganda nelle mani del regime capeggiato dal Führer Adolph Hitler, per dodici terribili anni cancelliere del Terzo Reich.
L’Italia è arrivata all’ultimo atto dopo aver battuto USA (1-0), Giappone (8-0) e Norvegia (2-1). Le immagini in movimento della finale sono reperibili nello sterminato archivio web dell’Istituto Luce, custodite in un cinegiornale di due minuti e quarantasette secondi. La prima frazione di gioco vede l’Italia in vantaggio con un gol di Frossi. Nella ripresa, il pareggio austriaco con l’attaccante Karl Kainberger. I novanta minuti si chiudono in parità. Si va ai supplementari. «Gli italiani sono all’attacco. Essi premono con maggior impeto e brio. Sembrano più freschi dei loro avversari» recita la voce narrante prima del gol decisivo segnato ancora da Frossi, capocannoniere di Berlino ‘36 con sette reti.
A entrare sempre più nell’immaginario collettivo italiano, sarà però l’allenatore Vittorio Pozzo che negli stadi di Roma, Berlino e Parigi – tra il 1934 e il 1938 – ha scritto pagine sportivamente ineguagliate della storia della nazionale.
Torinese, classe 1886 (anno di pubblicazione di Cuore di De Amicis), monarchico e nazionalista, dirigente della Pirelli, giornalista per La Stampa e Il calcio illustrato, membro del Comitato di Liberazione Nazionale a partire dal settembre del 1943, Pozzo guidò la nazionale fino al 1948 senza mai ricevere un compenso. L’eliminazione alle Olimpiadi di Londra di quell’anno con la Danimarca (3-5) e una bruciante sconfitta a Torino con l’Inghilterra (0-4), saranno gli ultimi atti da CT di una nazionale che aveva allenato puntando su difesa di ferro e contropiede, con austerità e spirito militaresco. Sapeva tutto dei suoi giocatori, apriva le loro lettere, impediva loro di leggere i giornali. Nei pre-partita, parlava della battaglia del Piave. «Serietà», «profondità», «responsabilità», le sue parole chiave. «I giocatori non li perdevo di vista un solo istante» racconterà al termine di una carriera che lo avrebbe visto conquistare l’unico oro a cinque cerchi della contraddittoria storia del nostro calcio.
Commenti
Posta un commento