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Roberta Torre, la lunga storia del gangster musical



«Ho visto Emilia Pérez e mi è piaciuto molto perché non è un musical classico. È un film con dei codici unici. Da un punto di vista tecnico, questa idea del recitare cantando l’ho trovata notevole. Il film ha questa dinamica in cui la recitazione diventa cantata con una forma particolare. Perché non è una melodia ma una sorta di dialogo musicale». A descriverci così il film francese di ambientazione messicana di Jacques Audiard (13 nominations agli Oscar 2025) è Roberta Torre, la cineasta che di gangster-musical ne sa qualcosa. Basti pensare al suo irriverente esordio cinematografico. Un musical in cui la violenza mafiosa fu lavorata a ritmo di rock and roll, rap, sonorità neomelodiche, sceneggiata e disco music. Si intitolava Tano da morire, premio «Settimana internazionale della critica» e Leone del futuro al Festival di Venezia del 1997.

Cosa l’ha colpita di più della narco-opera di Audiard?

Il balletto dei fucili e dei mitra che vengono presi, buttati e ripresi. È una coreografia anche di suoni e di rumori. Da un punto di vista registico, l’ho trovato notevole. E poi ho trovato bravissime le interpreti. Questi gli elementi che vanno sicuramente a favore del film. Ci sono poi dei cliché. E lì bisognerebbe aprire un discorso su quello che è il cliché. Perché giocare con i cliché ha dei pro e dei contro.

Le polemiche non sono mancate.

Misurarsi con il cliché è come cucinare un piatto complicato dove basta un secondo di cottura in più per rovinare tutto. Se invece la cottura è perfetta, quel piatto diventa un capolavoro. Che ci sia una sorta di semplificazione di tanti argomenti, è vero. Ma è anche vero che il film tratta tanti temi: la transizione di genere, il narcotraffico, i desaparecidos. Quest’ultimo, ad esempio, è un tema delicato in una nazione come il Messico. Amiche messicane mi hanno detto che il film è pieno di luoghi comuni. Io tutte queste cose insieme le ho viste. Nel bene e nel male.

Andiamo indietro nel tempo. Come nacque «Tano da morire», il suo musical sulla mafia?

Io ero a Palermo dal 1990. Avevo girato tanto per le strade e conosciuto tante storie. A un certo punto una persona mi disse: «Ho una storia bella per te. Te la racconto». Ed era la storia di questo piccolo boss ucciso nel 1988, Tano Guarrasi, di professione macellaio. Un pesce piccolo dell’organizzazione mafiosa con due caratteristiche prioritarie. Tano era donnaiolo e gelosissimo delle sue sorelle. La cosa che mi incuriosiva era questo legame col femminile.

Come ha ricostruito la sua storia?

Con una lunga ricerca sul campo, gli atti del processo, le sue fotografie e le testimonianze di chi lo aveva conosciuto. All’inizio ho lavorato tirando fuori quella che era l’anima vera, quasi documentaristica, della storia. A un certo punto le strade si cominciavano a biforcare, a triforcare. Alcune dichiarazioni erano in ambiguità con le altre e Tano cominciava a diventare una sorta di Rashomon. Per cui ho detto: «Per raccontare un personaggio così sfuggente e così legato all’aspetto femminile ci vuole un codice particolare».

Da qui l’idea del musical?

Allora ero in contatto con Nino D’Angelo. Avevo fatto un suo ritratto: La vita a volo D’Angelo. Un giorno gli dissi: «Nino, ma ti andrebbe di fare la colonna sonora di uno strano film che parla di un mafioso che però è un Don Giovanni? Su questa cosa, io ci vorrei fare un musical, un film musicale».

E lui accettò subito?

«Sì, assolutamente», mi disse. Ci vedemmo a Roma. Nino era un uomo di un’intelligenza profonda dal punto di vista musicale e in quel momento stava vivendo una straordinaria evoluzione artistica. Nino colse immediatamente questa opportunità. Donatella Palermo, la mia produttrice con cui lavoro da allora, intuì subito la potenzialità del linguaggio del musical e ci disse di seguire quella strada. Da lì in poi ci siamo lanciati.

Come interagivate?

La storia aveva degli snodi e dei momenti drammaturgici su cui Nino componeva le canzoni. Poi me le faceva sentire al telefono.

E «‘O rap ‘e Tano», la canzone che racchiude la storia del protagonista, come nacque?

Inizialmente lui voleva fare una tarantella e io gli dissi: «Ma no, Nino, facciamo un rap». «Ah, ‘O rap ‘e Tano…», mi rispose. Fu un periodo di gioia e felicità assolute. Nino – ricordiamoci che Palermo e la Sicilia cantano napoletano – registrò le canzoni con delle voci di neomelodici. Girammo al quartiere della Vucciria che divenne il teatro di questa storia. Era una festa continua per i vicoli e le strade e la fotografia di Daniele Ciprì, con quel tripudio di colori pop, ha dato un contributo notevole. Per la prima del film facemmo poi i santini con i personaggi e i testi delle canzoni al posto della preghiera. Ho sempre avuto una passione per le madonne.

Fare a Palermo un film di questo tipo negli anni post-stragi del 1992 non doveva essere facile.

Il tema era spinoso. Quando uscì il film qualcuno disse: «Ma si può ridere della mafia?». Poi il giudice Caponnetto scrisse che si doveva ridere della mafia. Da quel momento in poi si sdoganò l’idea che per raccontare una storia di mafia si poteva usare un tono diverso da quello del cinema d’impegno civile. Voglio ricordare un’altra cosa. L’edizione del soggetto iniziale di Tano da morire fu curata dalle Edizioni della Battaglia, la casa editrice di Letizia Battaglia. Letizia si innamorò di questa storia dall’aspetto femminile molto forte e che dava la possibilità di traslare lo sguardo, di poter giocare e ridere con leggerezza rispetto a temi così drammatici.

Questo punto di vista nel film ci aiuta a smontare il mito del boss virile. Possiamo dire che Tano da morire è anche la parodia del «mafioso macho»?

Grazie al grottesco, siamo riusciti ad uscire dai cliché del machismo, dell’uomo forte che non deve chiedere mai. Mi pare che questo tema torni spesso qui in Italia. Pensiamo anche alla serie su Mussolini, M-Il figlio del secolo, e alla dicotomia realismo-antirealismo.

In una battuta, quale fu la forza di Tano da morire?

Avere scardinato dei codici. E poi la forza antropologica. Il film era interpretato da persone vere, attori non professionisti, che avevano una vicinanza reale alle storie raccontate. Quello era un popolo con il suo linguaggio e la sua gestualità. Un popolo che raccontava la sua storia.

*L'articolo è stato pubblicato sabato 1 febbraio 2025 su Alias-Il Manifesto.

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