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Giuseppe De Santis, Portella della Ginestra e un film mai fatto

Tra i diversi film non realizzati da Peppe De Santis, c’era un progetto sulla strage proletario-contadina di Portella della Ginestra. Quell’eccidio terroristico-mafioso datato Primo Maggio 1947 non poteva non colpire l’immaginazione di un uomo «cresciuto nell’alveo della società contadina», un «poeta del realismo sociale» (così lo definì Costa-Gavras), autore in pieno Neorealismo di una celebre Trilogia della terra (Caccia Tragica, 1947; Riso Amaro, 1949; Non c’è pace tra gli ulivi, 1950). Eravamo nel bel mezzo degli anni ’50 quando il regista nato nel 1917 a Fondi, nella sua «Ciociaria della costa», aveva deciso di guardare al «cuore della tragica e gloriosa terra di Sicilia» del dopoguerra. Una stagione «di fame, di sete, di disperazione», in cui i «proprietari di mulini e grossisti di grano e di farina» erano «immischiati nella onorata società e talvolta capi della mafia» ed in cui «un giovane (…) di nome Salvatore Giuliano, faceva borsa nera». Era la Sicilia dei decreti Gullo e delle lotte bracciantili, della violenza mafiosa contro sindacalisti ed esponenti Pci-Psi, delle elezioni regionali dell’aprile 1947 che videro il «Blocco del popolo» (l’alleanza tra i partiti di sinistra) ottenere il 30% dei voti e una Dc staccata di dieci punti. Un contesto poi segnato dai fatti del Primo Maggio, pochi mesi prima che la Costituzione repubblicana entrasse in vigore.

Su quel massacro che vide la morte di undici persone (tra loro giovanissimi e bambini), De Santis voleva dunque fare luce. In nome della sua visione di arte militante, contrapposta allo spirito di epoca fascista, di cinema come strumento di conflitto e di intervento, di comprensione e trasformazione della dimensione politica contingente. Un punto di vista sempre attento inoltre alla condizione femminile, ai ceti popolari e, come ci dice Steve della Casa, «alle lotte contadine di quegli anni, osservate da De Santis come il punto più alto di lotta della sinistra nel Mezzogiorno». La sua idea di film – da svolgersi «in assoluta unità di tempo, nel corso della giornata della strage, mostrata peraltro dal punto di vista dei banditi» come ricorda Emiliano Morreale – si trasformò in un «racconto cinematografico» in cui presero vita «lamenti dei feriti», «pianti di donne» e «grida di bambini». Tra le scene più toccanti, il dialogo di un figlio con il padre «inginocchiato accanto al corpo ormai esamine della sua sposa». In fase di scrittura, De Santis scelse di collaborare con Felice Chilanti, un irregolare del giornalismo italiano che in quegli anni Vittorio Nisticò, direttore del quotidiano L’Ora (1954-1975), aveva voluto nel suo pool di cronisti di inchiesta. 

«Chilanti era un ex fascista radicale ed antisemita, nato nel Polesine e di origine contadine. Scampò alle Fosse Ardeatine e dopo la guerra si avvicinò al Partito comunista», racconta Ciro Dovizio che a quella stagione de L’Ora ha dedicato un volume (L’alba dell’antimafia, Donzelli, 2024). «In un’epoca in cui il discorso pubblico e politico su mafia-e-antimafia faticava ad affermarsi, Chilanti aveva volto il suo sguardo al rapporto mafia-classi dirigenti. Nel 1958, inoltre, avrebbe coordinato, celebre il suo articolo Dà pane e morte, la prima grande inchiesta sulla mafia che costò a L’Ora un attentato». De Santis aveva voluto con sé un cronista di primo livello che «aveva seguito il processo di Viterbo sui fatti di Portella a cui Giuliano, il bandito di Montelepre che con una mitragliatrice aveva sparato sui contadini, non partecipò perché ucciso nel 1950 dal cugino e luogotenente Gaspare Pisciotta. Una esperienza da cui trasse nel 1952 un libro intitolato, non a caso, Da Montelepre a Viterbo». La loro collaborazione generò un trattamento di una cinquantina di pagine battute a macchina dal titolo Portella delle Ginestre (1955). Il documento testimonia con forza la scomodità della figura di De Santis per il sistema partitico e produttivo nel contesto del centrismo democristiano e dell’irrigidimento del sistema politico provocato dalla Guerra Fredda.

Sul rapporto mafia-Stato, Salvatore Lupo definirà poi gli anni 1946-1960 il periodo del «lungo armistizio» in cui la mafia non è vista come «un’organizzazione criminale», ma come «un comportamento» e «il residuo di un’arcaica cultura anti-statalista». Al centro delle cronache di allora vi è Giuliano, il guerrigliero mediatico e fotografo delle proprie gesta. Nel soggetto, De Santis e Chilanti decostruiscono la sua figura di bandito sociale-e-romantico sottraendogli l’appellativo di «re di Montelepre» e descrivendolo, prima di sparare, «livido, nervoso, agitato». Nelle ore successive alla strage lo immagineranno dialogare così con la sua banda: «Ma poi chi erano quelli là che sono morti? Prendevano troppo piede, invadevano le terre, volevano una buona vita senza rischiare niente. Volevano le terre degli altri e dove arrivavano tutti insieme come cavallette non c’era più posto per noi. Avevano alzato troppo la testa e noi gliela abbiamo fatta abbassare». L’eccidio di Portella che un convegno del Centro di documentazione sulla mafia fondato da Umberto Santino e Anna Puglisi definirà nel 1977 «una strage per il centrismo», è un momento chiave della storia repubblicana che fin da subito si offre come un oggetto di complessa messa a fuoco su cui il cinema italiano non ha mai però rinunciato ad interrogarsi.

Anton Giulio Mancino, ne Il processo della verità (Kaplan, 2008), scriverà di ben «nove film fatti, da fare o da non fare su Portella», ricostruendo come il primo ad interessarsi allo strazio di quei corpi colpiti a morte sotto un cielo di bandiere rosse accarezzate dal vento fosse stato Luchino Visconti per un mai realizzato «film di propaganda e controinformazione» del Pci in vista delle elezioni del 1948 e che si trasformò poi nel verghiano La terra trema (1948). Attraverso gli appunti del regista e le testimonianze di Franco Zeffirelli, sappiamo come il film mosse i primi passi come un documentario in cui far emergere il carattere terroristico di quella carneficina raccontando una «mafia padronale» che aveva dato «una sanguinosa, tremenda lezione intimidatoria per il futuro» al movimento contadino. Interpretazioni che ben si legano alla ricostruzione di quella giornata immaginata da Chilanti e De Santis, già collaboratore di Visconti. Ma per far entrare nel nostro immaginario politico, sindacale e antimafia quella strage che non smetterà di tormentare la nostra democrazia, dovremo attendere il 1962 e le scene di massa del Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, allievo viscontiano per definizione. 

Fotogrammi che continuiamo a guardare e ad utilizzare – in virtù del loro grado di «verità raggiunta» (Sciascia dixit) – con la forza, la fiducia e lo status di immagini di repertorio raccolte in presa diretta. Perché capaci di restituirci le emozioni di quei momenti su cui sarebbe tornato su input di Danilo Dolci – (in)direttamente e rifiutando logiche spettacolari – Paolo Benvenuti nel suo Segreti di Stato del 2003.

*L'articolo è stato pubblicato sabato 3 maggio 2025 su Alias-Il Manifesto.



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