Dialogare con Marco Grossi, docente di storia del cinema (Accademia di Belle Arti di Frosinone), direttore artistico del «Fondi FilmFestival» e segretario dell’Associazione De Santis, vuol dire immergersi nel mondo di un regista, Giuseppe De Santis, che nella sua carriera ha realizzato undici film, tutti indimenticabili. Tra le opere che non videro la luce, un progetto Tv per la Rai: uno «sceneggiato sul neorealismo nel cinema» che avrebbe raccontato gli anni che separavano Ossessione (1943) da Rocco e i suoi fratelli (1960). Quella idea iniziale di cinquantadue cartelle è oggi contenuta nel volume La strada dei vent’anni – Per un racconto televisivo del neorealismo (Iuppiter, pp. 132).
Grossi, ci racconta questa operazione editoriale da lei curata?
Un anno fa, dopo aver visto su Rai 3 una puntata della docu-serie Illuminate dedicata a Suso Cecchi d’Amico, mi sono ricordato di quando, nel 1999, le telefonai per raccontarle i primi passi dell’associazione De Santis. Lei mi disse allora di avere un documento inedito scritto da Peppe. E poi aggiunse: «Ti faccio un regalo. Se mi dai l’indirizzo di casa, te lo spedisco». Pochi giorni dopo aveva questo plico che mi scottava tra le mani. Allora lo lessi avidamente ma lo misi da parte perché non sentivo maturi i tempi per una filologica rilettura di quel testo commissionato a De Santis, nell’inverno del 1979, da Andrea Barbato, direttore del Tg2.
Cosa è cambiato oggi?
La docu-fiction sulla d’Amico mi ha fatto pensare che quel progetto, nonostante il suo carattere magmatico e incompleto, si potrebbe attualizzare proprio in quel modo lì, alternando materiale di repertorio a scene di fiction. E vorrei che sia la Rai a farlo per raccontare questa stagione capace di rivoluzionare la storia del cinema mondiale.
Perché il progetto non si realizzò?
De Santis butto giù questo brogliaccio che consegnò i primi giorni del 1980. Ma di lì a poco, un riassetto nel Cda Rai spostò le pedine in campo, tra cui i principali sponsor dell’iniziativa: il direttore di Rai 2 Massimo Fichera e lo stesso Barbato.
Una storia con dei punti di similitudine con quella del progetto sui fatti del Primo Maggio 1947 da cui, con Virginio Palazzo, avete tratto, nel 2013, il doc «Appunti per un film su Portella»?
In quel caso, quelle pagine palpitanti non si persero, ma furono boicottate dai soliti veti censori che partivano in maniera centrifuga dagli ambienti governativi per poi riflettersi sulle case di produzione e sulla BNL, la Banca Nazionale del Lavoro, braccio economico del governo per il sovvenzionamento del sistema cinema.
Tornando al progetto Tv sul neorealismo, questo scritto cosa ci fa capire dello stesso De Santis?
È una riconferma della sua coerenza, come artista e come uomo. Nella prosa sanguigna di quelle pagine viene fuori la sua passione per questo tipo di cinema. Non solo per i temi sociali di cui si occupava ma anche per la sua rivoluzione formale, come sostenuto da Carlo Lizzani, e la capacità di innovare il linguaggio. Il neorealismo è stato il «Rinascimento del Novecento».
Quale scena del testo trova cinematograficamente più evocativa?
De Santis, Lizzani e Massimo Mida Puccini che, attraversando di notte una Milano bombardata con dei pattini, incontrano gruppi di operai con cui discutono di vita, di futuro, di un’Italia finalmente libera. È un’immagine gioiosa.
Nel testo non manca una «polemica» nei confronti del «geniale e affascinante trasformista» Rossellini.
Quelle parole di De Santis sono riferite all’uomo, non all’artista. Rossellini è il cineasta geniale di Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero. E ragionando in termini televisivi, capì l’importanza della Tv come strumento didattico. L’amarezza di De Santis credo derivi da un episodio legato alla lavorazione di Scalo merci, quando Rossellini, dopo il bombardamento di San Lorenzo a Roma – luglio del ’43 – si rifugiò in Abruzzo, non aderendo alla lotta partigiana. Lì, fra loro, ci fu una frattura umana mai ricomposta.
«Vorrei essere ricordato più per i film che non mi hanno fatto fare che per quelli che sono riuscito a realizzare». Questa frase che De Santis pronunciò durante il ritiro del Leone d’oro alla carriera a Venezia (1995) suona ancora oggi come un amaro epitaffio.
Il De Santis mai apparso sullo schermo è forse più interessante di quello che ha concretizzato le sue battaglie. Il «problema De Santis» è poi unico rispetto a quello degli altri autori del neorealismo. Oltre a dar fastidio ai partiti reazionari, non veniva difeso neanche da sinistra. Quando uscì Riso amaro, nomination agli Oscar per miglior soggetto, la sinistra accusò il film di enfatizzare la sensualità dei corpi delle mondine anziché le loro lotte. Dicevano che sull’aia dovevano ballare il tango e non il boogie-woogie, non capendo che il film rivelava, alla fine degli anni ‘40, la modernità che stava stravolgendo il Paese. Cose che Pasolini avrebbe denunciato anni dopo. Queste cose la sinistra non le capì. Basti pensare che dopo Roma ore 11 (1952), altro straordinario racconto sui cambiamenti nella società italiana attraverso la storia di donne alla ricerca di un lavoro, Togliatti, che pure lo trovò bellissimo, invitò De Santis a riposarsi e a pensare ad un film d’amore.
*L'articolo è stato pubblicato sabato 3 maggio 2025 su Alias-Il Manifesto.
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